La storia della Roma Napoli Roma

    LA CORSA CICLISTICA XX SETTEMBRE
    di Marco Impiglia

    […] Poi fu l'avvento del ciclismo e della Roma-Napoli-Roma in una sola tappa, per il XX settembre. I
    corridori partivano con lo zaino affardellato, e qualche volta arrivando magari trainati da un'automobile
    compiacente, se non avevano dovuto abbandonare sotto le sassaiole notturne dei contadini. Erano i tempi di
    Gerbi, dalla maglia rossa, e delle gare pittoresche e piene di impreveduto […].
    Orio Vergani, Almanacco di Roma 1924.
    Roma in bici a inizio Novecento
    «Intravedo razze di meravigliosi pedalatori, quando il ciclismo avrà terminato la rivoluzione dei
    costumi moderni». Questo scriveva Emile Zola nel 1902, anno in cui il romano di nascita tedesca
    Ferdinando Grammel si aggiudicava la prima edizione della XX Settembre. Siamo in pieno
    nell'epoca in cui il vecchio «corsiero d'acciaio» ha mutato nella moderna «bicicletta». Merito di
    Dunlop che ha inventato i pneus, e poi di Michelin che l'ha resi smontabili, e di Pirelli che, nel
    1892, ha ideato il “Milano”, molto sbrigativo da montare; e merito di tutti i componenti meccanici
    che hanno trasformato il telaio tubolare di una macchina sorprendente. E così si filava. Su strade per
    la maggior parte orrende, però. Per cui siamo anche in un periodo in cui il ciclismo su pista è molto
    più popolare del ciclismo su strada; nato, quest'ultimo, come prova di resistenza rispetto al primo.
    In pista: agilità, velocità, acrobatica, belle dame sulle tribune, aperitivi. Su strada: durezza, senso
    dell'avventura, tendenza al masochismo, natura, solitudine. I routiers come eroi? Lo erano. Così li
    dipingevano i giornali e così venivano visti e goduti dai suivers. I termini francesi già ci indicano da
    dove provenisse la balza. Quando, nel 1901, i fiduciari della Società Sportiva “Forza Coraggio”
    parlarono d'organizzare una Roma-Napoli-Roma, gara di 460 chilometri da percorrersi senza soste,
    da due lustri esistevano le apocalittiche Lione-Parigi-Lione di 1040 km e Parigi-Brest-Parigi di
    1.200 km. Quest'ultima stava in calendario proprio a settembre, mese buono per le prove su strada
    in Francia e nel nord Italia, prima dell'arrivo delle piogge d'autunno. La storia della nascita della
    “XX Settembre” l'abbiamo già raccontata in uno dei due volumi dedicati all'Audace Club Sportivo.
    Infatti, l'Audace, società ancora oggi in vita e tra le più gloriose dello sport capitolino, sortì fuori da
    un litigio su come doveva combinarsi la corsa: aperta a tutti o solo per i professionisti e i licenziati
    UVI, l'Unione Velocipedistica Italiana la cui sede stava a Milano? Mista o separate le due specie
    amateur e pro?
    E' facile intuire che la data e il titolo della corsa abbiano tratto spunto dal desiderio di celebrare la
    presa di Roma al papa; ulteriore beffa a quei ministri di Dio che lo sport l'aborrivano in buona
    misura. Epperò, ci sono particolari e situazioni da enucleare: che tipo di sodalizio era quello che
    promosse la corsa? Perché lo fece? Che situazione c'era a Roma per il ciclismo? La Forza e
    Coraggio, volta a praticare un po' tutte le discipline più amabili – dal ciclismo al podismo, dalla
    lotta ai pesi e alla ginnastica, dal nuoto al tamburello e al football – aveva la sua sede in via XX
    Settembre; nell'attigua via Belisario, al civico 17, possedeva una pista in legno con chalet svizzero.
    In quello chalet, il 10 ottobre 1901, avvenne il litigio. Un gruppo di soci, capeggiati dal funzionario
    daziario Aurelio Cappabianca, un piemontese mecenate dello sport, non si trovò d'accordo con Nino
    Ilari, noto giornalista, poeta, corrispondente della Gazzetta dello Sport, sulla maniera d'allestire la
    gara. Cappabianca e soci si staccarono, da quella serata di conciliaboli finita a insulti fondarono
    l'ACS. La Forza e Coraggio era la più attiva della dozzina di società che s'interessavano di ciclismo.
    C'erano l'Audax Italiano (derivazione del Touring, raccoglieva tutti coloro in grado di fare 200 km
    in un giorno), la Canottieri Aniene-Veloce Club, la Ginnastica Roma, la Velocipedistica Romana –
    che era stata la prima, di carattere più elitario rispetto alla F&C – l'Unione Ciclistica Romana, lo
    Sporting Club e altre due società minori: Il Pedale e la SC The Sport. Più la sede regionale
    dell'UVI, la quale sovrintendeva a molte situazioni agonistiche. A livello di ciclo-turismo, la rivale
    dell'UVI era il Touring Club Italiano. Nel 1896, sotto la presidenza del conte Agostino Biglione di
    Viarigi, l'UVI aveva dato alle stampe a Torino la prima Guida Ciclistica d'Italia, battuta di pochi
    mesi dal centinaio di guide-itinerario pubblicate e distribuite ai soci dal milanese TCI. Si trattava
    delle antenate delle mappe stradale automobilistiche di oggi!
    L'agonismo degli abitanti della capitale del Regno d'Italia, in fatto di bici, si rivolgeva per lo più alla
    pista. Nell'area di Porta Pinciana e dei quartieri Ludovisi e Sallustiano, edificati dagli invasoriliberatori-
    unificatori savoiardi per fare Roma a loro immagine e somiglianza, si concentravano gli
    impianti. D'altronde, era grazie ai “paini”, agli immigrati dal settentrione, che Roma vibrava per lo
    sport ed era divenuta una città in espansione di 435.000 abitanti, più del doppio rispetto alla
    sonnacchiosa Roma del 1870. Le aree verdi di Villa Borghese, chiuse da Porta del Popolo e
    innervate dalla Flaminia, che fungeva da direttrice e via maestra del ciclismo capitolino, avevano il
    loro punto più sportivo nella conca alberata di Piazza di Siena. Lì nel verde, dal 1894, la villa
    ospitava una pista in legno di 400 metri di sviluppo, con curve sopraelevate per gli amanti del
    brivido a due ruote. Fuori Porta del Popolo, in via dei Bagni, s’innalzava la pista con chalet della
    “Velocipedistica”. Passata Porta Pinciana, s'indovinava la sagoma del Velodromo “Roma” (dal
    1895) in via Isonzo, sede dello Sporting Club e di proprietà dei costruttori milanesi Bertone e
    Fossati; di lì a un paio d'anni, avrebbero cominciato a buttarlo giù per far posto a nuovi, severi
    palazzi. Poi i due sferisteri, Romano e Sallustiano, per gli scommettitori dei giochi con la palla
    toscani, e un trittico di piste: la “Eden” in via Ludovisi, quella in via Sardegna e l'altra in via
    Belisario, sul luogo dove fino a pochi anni prima sorgevano le millenarie mura. Infine, la Pista
    Tomei di via Quintino Sella, di proprietà del negoziante di velocipedi Adolfo Tomei e sede della
    Unione Ciclistica del conte Ugo Celani; qui si organizzavano seguitissime gare di pistard
    professionisti e lezioni di bicicletta a settanta centesimi l’ora. In via XX Settembre c’era la sede
    della Società della Caccia alla Volpe, che vantava tra i soci i principi dell'aristocrazia nera. Per un
    breve periodo, dopo essere stati tra i pionieri del biciclo, i nobili romani s’interessarono al ciclismo,
    riprendendo dall’Inghilterra la moda di una caccia alla volpe su gomma (paper hunt) da eseguirsi di
    giorno a Villa Borghese o, nelle serate estive, nel centro storico cittadino. Ma la loro bizzarria era
    un dispetto: infatti la bici moderna, meno costosa (molti cittadini l'assemblavano da soli, con pezzi
    rimediati qua e là nelle officine apposite), era ormai alla portata della gente comune. I campioni non
    erano più loro, belli e fieri sugli alti bicicli, ma contadini che olezzavano di cacio. In specie i
    routiers, quando si fermavano in trattoria, puzzavano come bestie, e nessun esponente dei ceti
    sociali superiori ci teneva a mischiarsi con tipi che, in buona parte, neppure sapevano usare un
    corretto italiano. Bici ed emersione delle masse facevano comunella: c'era già stato perfino un inno
    alla bici proletaria, composto per l'inaugurazione del ciclo club romano “Avanti!”, pubblicato sulla
    Gazzetta dello Sport nell'agosto 1900.
    Ecco, questo è un punto importante da sottolineare: la corsa di biciclette XX Settembre arriva
    nell'esatto momento in cui il sol dell'avvenire risplende e i signori si stufano del velocipedismo. La
    manifestazione è quindi portata dai tempi nuovi, riflette la volgarizzazione dello sport, la sua
    nazionalizzazione nell'Italia savoiarda, e non per niente simbolicamente si richiama ai bersaglieri
    ciclisti e alla breccia di Porta Pia. E' la nuova classe media che se la inventa. Grazie anche alla
    propaganda del Touring, il ciclismo sta trovando la sua consacrazione come sport non solo della
    borghesia ma anche del proletariato urbano e rurale. Ci sono dentro i motivi dell'industria, certo,
    con la pubblicità delle marche di biciclette che bisogna far conoscere alla clientela, ma non c'è più
    eleganza né esibizionismo, sparite le uniforme rosse e blu dai bottoni preziosi. Guardiamoli bene,
    questi primi concorrenti alla XX Settembre. Bardati come sono, camicie a righe colorate e pantaloni
    lunghi di fustagno, berretta rotonda, alcuni usano quelle per i bagni di mare, scarpette larghe di
    pianta, fiasche e borse a tracolla, con dentro i preziosi ferri per le riparazioni, sembrano una via di
    mezzo tra fantini, esploratori del Congo ed erranti sollevatori di pesi di sughero da piazza. Alcuni
    parlano dialetti ostrogoti e temono i briganti del regno borbonico: ci manca solo che gli spunti la
    bocca di uno schioppo dalla schiena curva. Siamo a Porta Pia, è il mattino del 19 settembre 1902.
    Davanti a loro i ciclisti routiers hanno ventiquattr'ore di pedalate nel fango-polvere-brecciolino e
    temibili, incognite avventure. La ricompensa a tanta fatica? La medaglia d'oro offerta dalla regina
    madre al vincitore, che riceve anche un quadro ad olio del pittore Giacomo Balla; quella della F&C
    al secondo arrivato, cui spetta un binocolo offerto dalla Marina Militare, altre medaglie di vario
    metallo, camere d'aria e fanali elettrici o ad acetilene, strumentazioni per la bici, oggetti artistici tipo
    terracotte, statuine in bronzo e simili. Si corre, in pratica, per la gloria.
    Gli eroi della strada (1902-1914)
    La prima edizione cadde sotto il patrocinio dell'UVI, per cui l'iscrizione fu limitata ai licenziati del
    settore dilettanti. Partirono in 27, quasi tutti delle società capitoline sopra citate. Fra loro, quattro
    ragazzoni scesi dal nord: Tarquinio Soave del Veloce Club Vicentino, Clemente Antonelli della
    Virtus Bologna, l'astigiano Giovanni Gerbi e l'alessandrino Massimo Remondino. Si distingueva
    Gerbi, un diciassettenne che correva con la sua “biciclina” – come la chiamava lui – da due stagioni
    ed aveva appena vinto la Coppa del Re, promossa dalla Velocipedistica Romana e definita «grande
    marcia ciclistica di resistenza». Indossando un maglione fiammante, col tempo e con le vittorie a
    ripetizione il “piciot” avrebbe meritato il soprannome di “Diavolo Rosso”. Quella Roma-Napoli-
    Roma il diavolo assunse per Gerbi le sembianze di alcuni tifosi esagerati, che a furia di chiodi lo
    costrinsero a fare un tratto a piedi. Giunse quarto. Cose del genere furono possibili, e sempre
    facilmente attuabili, durante le prime edizioni della gara. C'era una sola automobile al seguito,
    lungo le vie Casilina, Appia e le altre strade deserte di veicoli a motore. Per un tragitto mostruoso
    che, passando per San Cesareo e Valmontone (i bifolchi con viva apprensione guardavano, dalle
    finestrelle di legno e dagli usci delle cantine in attesa del mosto, quei matti in velocità), s'inoltrava
    nella Ciociaria e, dopo Frosinone, aveva a Cassino il primo controllo, quindi entrava in Campania,
    sfiorava lo storico sito di Teano – secondo richiamo risorgimentale dopo il raduno a Porta Pia –
    traversava Caserta e scendeva a Napoli, per il secondo controllo; al ritorno, seguiva invece la via
    Appia, costeggiando il Tirreno e toccando Aversa, Capua, Gaeta, Itri, Fondi, Terracina, piegando
    all'interno per evitare le Paludi Pontine e salendo su a Cisterna, Velletri, Albano e giù in discesa
    verso l'Urbe. E' da notare che la seconda parte era tale e quale ad un itinerario consigliato da
    William Brockedon un secolo prima (Road Book from London to Naples). In tutto, appunto, 460
    chilometri, ma su strade non asfaltate e affatto illuminate. Non che i corridori non fossero abituati:
    dal 1894 e dal 1897 si effettuavano al nord la Gran Fondo, di oltre 500 km, e 460 era più o meno il
    chilometraggio della tappa d'apertura del primo Tour De France, che si sarebbe corso l'anno
    successivo.
    Umberto Grioni, nel suo manuale Hoepli più volte ristampato, affermava essere un routier di
    primissimo ordine «chi senza danno alcuno alla salute può superare 100 km in cinque ore, per due o
    tre giorni di fila». E si conoscevano le imprese da globe-trotter di Luigi Masini, che nel 1893 era
    partito da Milano alla volta di Chicago, mandando corrispondenze al Corriere della Sera, e nel
    1897 s'era imbarcato in un grand tour dall'Alpi alle Piramidi nel quale aveva viaggiato su un tratto
    dell'Appia da Roma a Capua via Terracina. Il problema più grosso era dato dal sostentamento
    energetico. Al semplice cicloturista, il prof. Monaco consigliava di succhiare zollette di zucchero e
    centellinare acqua tinta di caffè. Ma, per mantenere medie elevate, i professionisti bevevano forte.
    C'era chi ingollava zabaioni di sedici uova al Barbera (un litro), e chi, nella Parigi-Brest di
    diciassette ore, arrivava a consumare cinquanta litri di bevande: caffè, tè, aranciate, acque minerali
    bevute o spruzzate. La torta di riso, i biscotti, le banane, la cioccolata e le gallette costituivano
    alimenti assai apprezzati.
    L'organizzazione della prima “XX Settembre” comprendeva la giuria, il giudice d'arrivo, i due
    starter e il cronografista, tutti soci della Forza e Coraggio. Essa prevedeva dapprima il raduno, alle
    cinque e 50 spaccate a Porta Pia, coi bersaglieri ciclisti e i corridori in due separate schiere; dopo un
    discorso patriottico, il corteo fendeva la città e, all'imbocco della via Casilina, partiva la gara. Nel
    1902 il via fu dato alle 7 e 6 minuti. L'arrivo era previsto ai Cessati Spiriti, valle dove un'osteria
    medievale, antica posta usa al cambio dei cavalli con origini forse risalenti alla papessa Giovanna,
    accoglieva il viaggiatore proveniente lungo l'Appia da sud. Calcolate che la via Pontina non
    esisteva ancora, dominavano le paludi e la malaria lungo il litorale tra Nettuno (Torre Astura) e le
    selve di Terracina. Il percorso era pauroso veramente, ci voleva un certo fegato ad affrontarlo in
    bicicletta. Solo dieci anni prima il treno era arrivato a bucare l'oscurità millenaria che aveva tagliato
    fuori le pievi meridionali dalla città di Roma. Ancora nel 1884 un funzionario del comune, il
    geometra Tito Berti, scriveva nel suo volume Paludi Pontine che il viaggio in diligenza, lungo otto
    ore, tra Velletri e Terracina era «il peggior viaggio a cui possa essere condannato un uomo. Anche il
    terrazzano, che è costretto a farlo sovente per interessi e per commercio, vi si risolve a malincuore e
    il più tardi possibile». Prima dell'avvento della locomotiva a vapore, andare da Roma a Napoli
    prendeva qualcosa come venti ore; al principio dell'Ottocento erano state quarantacinque. I più
    veloci routiers della prima XX Settembre ne impiegarono poco più di dieci: il doppio del treno.
    Per le prime fasi i corridori avevano mosche cocchiere nei cosiddetti suivers, cioè gli appassionati a
    bordo di biciclette proprie. L'accompagno poteva durare, sfilacciandosi il gruppo, anche una
    cinquantina di chilometri. Dopo di che gli atleti rimanevano soli, con tutti i loro problemi e le ore di
    viaggio da affrontare. Cominciava la vera avventura, scandita dalle cadute, dalle forature delle
    camere d'aria e dai guasti alle “macchine” (così si chiamavano le bici, poi il sostantivo sarebbe
    passato agli automobili, che da maschi sarebbero divenuti femmine). Non ci si poteva concedere il
    lusso di una dormita, seppure breve. Le soste nelle locande servivano a bere qualcosa di caldo,
    espletare i bisogni corporali e rifocillarsi, quindi celermente si ripartiva. Di solito si formavano
    gruppetti, anche per il timore di sempre possibili assalti dei villici: i furti di frutta erano un cliché
    della corsa. Nessuno provava la tipica fuga in solitario, se non nella parte finale sull'Appia,
    all'ombra dei pini. Un momento temuto era l'alba del 20 settembre, quando le palpebre si
    chiudevano e occorrevano volontà e caffè per non fermarsi. I distacchi si contavano in minuti, in
    mezzore e in ore, ma non infrequenti giungevano, ad entusiasmare il pubblico romano, le volate a
    due, a tre o a quattro.
    L'edizione 1902 fu vinta giusto in volata. Ferdinand Grammel, un ventenne proveniente dalla zona
    di Stoccarda e portacolori dello Sporting Club, la terminò in 23 ore, 33 minuti e 15 secondi,
    tagliando il traguardo alle 6 e 40 del mattino, annunciato da squilli di tromba dei ciclisti bersaglieri.
    Il ragazzo aveva un'officina meccanica in via del Babuino. Montò una “Edoardo Bianchi” dal telaio
    (per l'epoca) ultraleggero e usufruì dell'appoggio dell'auto ufficiale della corsa. La sua bici fu
    esposta nei giorni seguenti nella vetrina del negoziante Solani, in via Quattro Fontane: i clienti
    poterono rilevare coi loro occhi come l'attrezzo, a dispetto di una caduta del suo proprietario, fosse
    in buone condizioni. Grammel batté di una manciata di secondi Alfredo Jacorossi – un pistard della
    Forza e Coraggio che usava una bici approntatagli del meccanico Augusto Bergami. pure lui in
    gara, e con quella si recava all'estero a guadagnar franchi e marchi. – Terzo si piazzò Vincenzo
    Spadoni, a bordo di una “Davide Feliciani”, altro meccanico con officina in via Cavour. Insomma,
    l'avrete capito: i meccanici romani Belle époque si guadagnavano la pagnotta con le biciclette, non
    con gli automobili. Staccati, giunsero Gerbi, l'audaciano Aldo Calligari, Adelchi Lupi della
    Velocipedistica, l'americano Iwer Lawson, che aveva partecipato in luglio ai campionati mondiali
    al Velodromo (così come Spadoni, il cui nome di battaglia presso gli scommettitori della pista era
    Zedel), Virgilio Gasperini e Giuseppe Micci, entrambi soci dell'Audace Club Sportivo, e infine
    Ernesto Bazzini dello Sporting Club. Scaduto il tempo massimo alle ore tredici, sei minuti e trenta
    secondi, si seppe che solo quelli erano i sopravvissuti al massacro: i restanti concorrenti tutti fermi
    lungo le pievi tra Roma e Napoli: il campione d'Alessandria Remondino bloccato a Capodimonte, il
    Soave perso tra i fumi di qualche vino bianco del Circeo, e un paio proprio dispersi. Ai Cessati
    Spiriti, gli eroici pedalatori furono festeggiati dalla gente, in attesa dalle cinque del mattino. Nel
    primo pomeriggio sia gli atleti che gli organizzatori e i curiosi e i tifosi si recarono a Porta Pia, per
    rendere il secondo omaggio alla storica breccia. Lì, discorsi del sindaco, delle autorità militari e
    civili, la consegna dei premi. Questa fu la prima, quasi criminale, Roma-Napoli-Roma. Corsa
    nell'anno in cui, per via dell'utopia socialista montante, il capo dei ministri Zanardelli presentava un
    disegno di legge per l'introduzione del divorzio, e in seguito a un accordo con la Francia ci
    prendevamo la Tripolitania e la Cirenaica. Una trentina d'anni dopo, il patron della corsa, Nino Ilari,
    così avrebbe rivissuto la fantastica esperienza:
    Data memorabile davvero, poiché quel tentativo romano di avvicinamento alle grandi competizioni
    internazionali doveva, poi, trasportare la Roma-Napoli-Roma all'apogeo della gloria, al classicismo
    vero dello sport ciclistico nazionale. La mattina del 19 settembre 1902, i ricordi ci fanno esultare
    l'ormai vecchio cuore, l'avvocato Vittorio Vinai, dalla base della colonna commemorativa di Porta Pia,
    lanciò, in un breve discorso, il suo saluto augurale ai partenti. Questi, incolonnati, si partirono dalla
    breccia, preceduti dai bersaglieri ciclisti della Caserma Lamarmora e traversarono le vie dell'Urbe,
    sempre tra due file di cittadini, osannanti agli eroi di quei tempi. Non vogliamo attardarci nella
    descrizione di quella prima fatica sportiva. Diremo solo che noi che seguimmo nella «caffettiera»
    messa a disposizione della giuria da Aurelio Fariselli Spallazzi, riccetto allora come riccetto oggi, la
    marcia per la Via Casilina all'andata, per quella Appia al ritorno, rimanemmo entusiasmati
    dall'arditezza dei concorrenti. Dall'arditezza e dalle sofferenze…
    Perché, nel 1902, nessun automobile di Casa si trovava al seguito della corsa. Ognuno faceva per sé e
    Dio pensava per tutti. Al ritorno, il piccolo lotto capitanato dal tedesco-romanescato Ferdinando
    Grammel, per la discesa di Itri si soffermò davanti allo spettacolo di una vigna, le cui viti, piegate sotto
    il peso dei grappoli maturi, chiamavano i ciclisti a una non preventivata vendemmia. E quale
    vendemmia vi venne compiuta! Quell'uva rappresentava per i corridori la manna mandata da Dio agli
    ebrei affamati del deserto, e il saccheggio si verificò. I contadini, accorsi sul posto come i vigili di oggi
    giorno, sbraitarono un po' prima, minacciarono anche, ma allorché da noi furono edotti
    dell'avvenimento straordinario, si calmarono subito ed aizzarono i vandali ad un pasto maggiore. –
    Magnéte, magnéte, fijoli! Questa ve fa buono. Doppo curaréte de chiù! A Roma, ai Cessati Spiriti
    davanti a una folla innumere, tagliò primo la linea del traguardo il tedescone, Grammel, tra
    un'ovazione tale che difficilmente può trovare confronti, oggi, negli arrivi in pista chiusa di corridori
    ammaestrati dall'esperienza, riforniti abbondantemente di macchine, di gomme, di cibarie, durante il
    percorso. E pensate che, in quei tempi, si marciava su macchine leggerissime…! La più leggera, la
    Bianchi, non pesava meno di 19 chili e non esistevano le ruote libere!
    Il Grammel, nella cameretta dell'Osteria dei Cessati Spiriti, oggi scomparsa, durante il massaggio
    rudimentale praticatogli dai militi della Croce Bianca, nel suo linguaggio italo-tedesco ci disse: – Io
    avere vinciuto premio Regina Madre… Dove essere? Io volere vedere! Capite? Allora sì che si
    pensava alla gloria! Il germanico aveva vinto la medaglia d'oro offerta dall'anima buona e grande di
    Margherita di Savoia, e a quel premio solamente pensava.
    Nel 1903 i concorrenti aumentarono a 36, giacché la F&C si sganciò dall'egida UVI e lasciò
    l'iscrizione libera a tutti gli amateurs. Fu istituita la Gran Coppa del Comune di Roma. Mancando
    Gerbi e qualsiasi altro valido routier del nord, la vinse Zedel Spadoni con la sua “Feliciani”
    (meccanica Triumph e gomme Roveda, si specificava sui giornali).
    Nel 1904 la corsa, considerata ormai il great event del ciclismo meridionale, riaprì i battenti
    all'UVI. Il raduno si fece appena fuori Porta Maggiore e la vittoria toccò ad Achille Galadini, anche
    lui della Forza e Coraggio. Galadini era un meccanico romano nato nel 1875, ma con la famiglia
    originaria di Morciano, nel Forlivese; aveva dalla sua una rispettabilissima complessione fisica,
    essendo alto circa uno e ottanta; ma nulla a confronto col gigantesco Thorwald Ellegaard, il
    campione danese dal quale era stato sconfitto in semifinale ai Mondiali per professionisti in pista
    nel 1902 al Velodromo. Come pistard, Achille Galadini era piuttosto famoso in Italia, tanto che da
    una statistica apparsa nel 1903 risultava al quattordicesimo posto per premi vinti (425 lire), alle
    spalle di star come Eros, Momo e Bixio. Egli sfruttò le sue qualità di velocista per superare in volata
    Piero Albini, un lombardo. Albini che poi avrebbe detto a Gianni Brera (Addio, bicicletta, 1964) che
    il suo compagno di fuga l'aveva battuto per la migliore pratica dei luoghi, essendo il numero uno
    della società organizzatrice; dimenticando di specificare di avere perso in volata, per il semplice
    fatto che il suo rivale era un provetto pistard velocista. Inoltre, c'è da notare che il romano corse con
    una Bianchi da passeggio imprestatagli da un amico, in quanto il signor Solani, rappresentate della
    ditta milanese a Roma, s'era rifiutato di consegnargli una bici da competizione. Ma ecco il quadro
    completo della gara riportato da Il Messaggero:
    Molta gente assistette ai Cessati Spiriti, fuori porta S. Giovanni, ieri mattina all'arrivo dei corridori
    della corsa ciclistica nazionale Venti Settembre, indetta dalla Società Forza e Coraggio di Roma.
    V'erano moltissimi velocipedisti appartenenti alle diverse società romane e molte carrozze padronali.
    Per la società banditrice v'erano il direttore della corsa Orfeo Pettinari, il presidente del comitato cav.
    Stacchini, il segretario Odorico Panna e la giuria nelle persone dei signori Telemaco Fabbri e Giulio
    Stefanini. Fu dovuto mettere un cordone per tenere indietro la folla. L'itinerario della corsa era Roma-
    Cassino-Capua-Napoli-Mondragone-Formia-Terracina-Roma: in tutto 460 chilometri da coprirsi pel
    primo in meno che 26 ore e per la validità in 30 ore. Dei 41 iscritti presero parte alla corsa 36 e cioè:
    Nesti – Micci – Jacorossi – Cocozza – Lupi – Giordano – Fortuna – Miglio – Gavedini – Fiori – De Rossi
    – Piacenti – Galadini – De Cecco – Grammel – Gasperini – Mancinelli A. – Albini – Bazzini – Sansoni –
    Grassi – Mossirone – Mottini – Alessandrini – Rissone – Graziosi – Gasperini U. – Pinto – Viganò –
    Lanza – Fidani – Pettinelli – Borgianini – Audax, Marinelli e Iacobini.
    Si ritirarono: Tagliarini – Pinto G. – Valan – Micheli e Precchia.
    Partiti da Roma la mattina del 19 alle 7 da un chilometro fuori porta Maggiore, alle 6 del pomeriggio
    cominciarono a giungere a Napoli e iermattina alle 7 giunse il primo al traguardo dei Cessati Spiriti,
    Achille Galadini della società Forza e Coraggio, coprendo i 460 chilometri in 23 ore, 12 minuti e 4
    secondi.
    2° Albini Pierino del Velo Club di Legnano, in 23 ore 12' e 7'';
    3° Grammel Ferdinando della Velocipedistica Romana in ore 23 e 15';
    4° Piacenti Federico della Forza e Coraggio in 23 ore e 16';
    5° Fiori Costantino della Forza e Coraggio;
    6° Cocozza Guido;
    7° Iacobini Alfredo;
    8° Fortuna Mario;
    9° Bazzini Ernesto di Bologna;
    10° Grassi di Napoli;
    11° Moltini Pompeo;
    12° Rissone Pietro;
    13° Sansoni Enrico;
    14° Marinelli Alberto.
    Quest'ultimo che si mantenne nel tempo massimo prescritto dal regolamento, giunse all'una e 30, tutti
    gli altri rimasero fuori. Alle 2 pom. i ciclisti che avevano preso parte alla corsa si recarono in corteo
    alla breccia di Porta Pia per la patriottica commemorazione. Circa il primo arrivato è da notarsi che
    questo è il secondo anno che la Forza e Coraggio rimane detentrice della coppa del comune di
    Roma.La bicicletta vincitrice montata da Galadini è stata, come in tutte le grandi corse, una "Bianchi";
    quindi nuovi trionfi i quali giustificano sempre più la fama mondiale acquistata da queste biciclette
    impareggiabili per la loro scorrevolezza e resistenza. Le nostre congratulazioni all'intelligente
    fabbricante che forma oggi l'orgoglio dell'industria nazionale. Un encomio anche al solerte
    rappresentante di Roma sig. Solani, che ha saputo così bene far apprezzare i prodotti di questa
    fabbrica.
    Per la sua vittoria Galadini ricevette cento lire in oro, una medaglia “media” in oro massiccio e un
    bastone da passeggio con pomo in argento e madreperla. Nei giorni successivi, la Bianchi s'affrettò
    a far pesare il fatto che il campione avesse trionfato con una bici normale, senza il classico
    manubrio a corna di bue. Stralciamo sempre da Il Messaggero:
    La bicicletta del primo arrivato Galadini era stata a lui prestata gentilmente dal suo amico Forcatura,
    perciò non è speciale da corsa preparata per l'occasione, ma una "Bianchi" di tipo comune e non
    poteva dare prova migliore che durante i 460 chilometri di strada pessima non subì la minima avaria.
    Questa macchina è esposta nelle vetrine del noto negozio Giulio Stefanini in via Nazionale n. 39 e
    forma l'ammirazione del numeroso pubblico che staziona continuamente lì avanti. L'altra bicicletta
    pure "Bianchi" montata da Piacenti, giunto a 3 minuti dal primo, è esposta al negozio Solani in via
    Quattro Fontane n. 114.
    Nel 1905 s'impose Eberardo Pavesi, il campione milanese di cui, nel secondo dopoguerra, Brera
    avrebbe raccolto le memorie nel suo L'avocatt in bicicletta. Pavesi aveva ventuno anni e correva da
    quattro stagioni: fu per lui il primo importante successo. Ottenuto da un “polentone” in una classica
    nata per volgarizzare il ciclismo nel meridione.
    Ma cos'era, in sostanza, la Roma-Napoli-Roma degli anni eroici? Una buona idea ce la fornisce lo
    stesso Pavesi. Nel 1913, sulla rivista Lo Sport Illustrato e a corredo di un parere sulla dodicesima
    edizione appena vinta da Costante Girardengo, rievocò con colorita penna l'avventura del 1905.
    Ricordo: lo Stadio non esisteva ancora e si arrivava su quella famosa strada, davanti all'osteria dei
    Cessati Spiriti. Un posto nudo, deserto e pur tanto ricco di cari ricordi che comunque ancora oggi
    riempiono la nostra anima di entusiasmo sincero. Si era nel 1905. Gerbi, Ganna, Galetti, Albini,
    Massironi, Fortuna, Conti, Modesti, Jacobini, Fidani, Jacorossi, Galadini, Cuniolo, Faravello, io, ecc.,
    nel mattino del 19 settembre si prendeva il via per la quarta Roma-Napoli e ritorno, ben 460 km tutto
    d'un fiato. Non furono pochi quelli che prima di Frosinone furono appiedati da forature. Fra gli altri mi
    sovvengo ancora di Gerbi, che non era in gran giornata, e di Ganna, allora come ora popolarissimo, ma
    affatto ignaro dei segreti della corsa. A Frosinone, dopo la salita che ha visto or sono quindici giorni
    un aspro duello tra Corlaita e Girardengo, io e Albini ci trovammo in testa con alla ruota il Rossi di
    Pavia e, dietro cento metri, Galetti, che più oltre scompariva dopo di essere stato vittima di una
    foratura. Forti dell'insperato vantaggio – erano i tempi in cui si faceva anche l'impossibile pur di
    annullare quel centinaio di metri presi con tanto sforzo – insistemmo energicamente. Albini marciava
    a meraviglia ed io mi sentivo proprio bene. Dopo Cassino anche Rossi doveva lasciarci; e ricordo bene
    che a Napoli io ed Albini, freschi e ben disposti, aiutandoci da buoni amici – uniti maggiormente per
    ragioni di dialetto e interessi di marca – eravamo in gran vantaggio e pieni di speranza pel ritorno. La
    notte si era fatta cupa, minacciosa, e in breve uno scroscio violento d'acqua ci investiva inzuppandoci
    dalla testa ai piedi. Senza parafanghi, senza impermeabili, senza un'anima viva che ci facesse la carità
    di un po' di luce artificiale, procedevamo a tentoni, diguazzando tra il fango, traballando ad ogni colpo
    di pedale e soffermandoci di tanto in tanto, dove la strada tenebrosa accennava a biforcarsi. Verso Itri,
    Albini con un'imprecazione più rabbiosa delle altre innumerevoli, mi avvertiva che aveva bucato. Non
    vi ho detto che si correva allora con gli smontabili; bene, vi dirò che le camere d'aria nascoste nella
    borsetta dell'amico erano inzuppate e impiastricciate di uova, zabaglione, zucchero, cioccolata. Un
    bell'impasto non è vero? E ve n'era di questa dolce miscela un po' dappertutto; e una dose abbondante
    nelle valvole. Da buon camerata mi arrestai e con ogni cura, dopo non pochi sforzi, mi riuscì di
    accendere un pezzo di candela che Albini teneva gelosamente custodita in fondo alla borsetta.
    L'operazione – certamente la più difficile da che corro – principiava così alla tremula e incerta luce di
    un piccolo moccolo, tra il buio fitto tutt'intorno e il sibilo sinistro del vento. Eravamo così fermi, non
    so, da un quarto d'ora circa, quando da lungi, prima indistinto, poi più continuo, indi regolare e
    possente il battito di un motore giungeva sino a noi. La prima impressione – ricordo – fu di sorpresa;
    credevamo d'essere i soli sperduti in quella notte fantastica; e non ricordo se l'apparire di tre ombre
    nella scia luminosa di due potenti fari – quelli dell'unica vettura che faceva servizio – fosse allora più
    importuna che bene accetta. Quello che ricordo fu che l'unica vittima di questa improvvisa apparizione
    fu Albini, perché io, dopo qualche tentennamento, balzai in macchina e mi unii ai tre fantasmi, i quali
    non erano altri se non Alfredo Jacobini di Roma, Carlo Conti di Milano e Modesti di Roma: avversari i
    primi due, e mio compagno d'equipe il terzo. Lasciai Albini e intuii, più che vedere, il suo faccione
    biondo contratto da una smorfia paurosa. Solo, sperduto nella notte tenebrosa, forse con la testa ripiena
    dei racconti foschi dei nonni sulle campagne contro il brigantaggio. Poiché, infatti – così mi raccontò
    dopo – Pierino fu ossessionato, per molte ore di indescrivibile angoscia, dalla paura dei briganti.
    L'acqua, dopo una sosta fugace, aveva ripreso con maggiore violenza: la ghiaia, il fango, le carreggiate
    rendevano spaventosamente penoso il procedere. Io poi – che per la prima volta da che correvo
    transitavo per quella strada – ogni cento metri ero a terra, arrischiando ad ogni istante di finire il mio
    sogno di gloria sotto le ruote della vettura che ci seguiva.
    Come Dio volle giungemmo ad Itri e di comune accordo ci fermammo in una osteria. Mentre Conti e
    Jacobini mutavano maglie e calzoncini con altre procurate dal loro direttore sportivo che seguiva a
    bordo della vettura, io e Modesti avemmo a prestito da un entusiasta amico del romano – che unico
    forse aveva avuto il coraggio di attendere il passaggio – un paio di maglie. Le ricevemmo dal direttore
    dei nostri avversari con tante e così premurose cortesie da far ricordare Virgilio… anche a chi non lo
    conosceva: «Timeo Danaos et dona ferentes». Con una occhiata abbracciai il piccolo manipolo. Dio,
    che quadro! La scarsa luce di qualche fiammella me lo fece apparire quasi come un bozzetto di creta
    simbolizzante la pazzia. Vi erano tutti, tranne uno. – E Conti?… domandai. Mi si disse premurosamente
    che era uscito per una imperiosa necessità, e mi si offrì un altro po' di zabaglione. Perdurando però la
    sua assenza, uscii sulla strada per accertarmi della presenza dell'avversario. Mi si giuocò allora un
    curioso tiro. Per assicurarmi che egli non se ne era andato, il suo direttore lo chiamò ad alta voce,
    come si chiama un compagno che, pur attendendo poco discosto, ci è reso invisibile dal buio fitto. Ad
    ogni grido di “Conti” una voce sonora rispondeva “…onti”. Ci volle un po' prima che mi accorgessi
    che a rispondere pensava l'eco. Vi permetto di ridere. Io allora certamente non risi; non ascoltando altri
    consigli inforcai il mio velocipede e mi buttai alla caccia dell'avversario, che a conti fatti doveva avere
    un quindici o venti minuti di vantaggio. Mi sentivo bene e non disperavo di riagguantarlo; ma dopo
    qualche centinaia di metri, i due cerchi delle ruote picchiavano sul terreno. Due bucature che non mi
    sono spiegate mai… per non voler spiegare troppo bene, mi facevano assistere, piangente, al passaggio
    rumoroso dei compagni di viaggio coi quali ero giunto ad Itri. Il tempo necessario di riparare; poi via e
    sempre sotto l'acqua. Ripresi Modesti e con lui, dopo aver raggiunto e lasciato Jacobini, mi misi alla
    caccia di Conti. A Caserta, precipitandomi al controllo, prima mia cura fu quella di chiedere i minuti di
    vantaggio dell'avversario e vi lascio immaginare la mia meraviglia, quando appresi che nessun
    corridore era fino allora transitato. Sicuro: «a sinistra, tieni sempre lungo il mare!» gli aveva sussurrato
    ad Itri il suo direttore, e Conti seguendo alla lettera le istruzioni era filato diritto a Gaeta, anziché
    prendere per Terracina. Con Modesti, dunque, ripresi la via per Roma. A cinquanta chilometri dalla
    capitale, erano già una ventina i ciclisti che incoraggiavano Modesti; e quando questi buca, si pensa
    bene di pigliarmi per la maglia, affinché attendessi il compagno. E più che si procedeva e più gli amici
    aumentavano, e con questi degli strani esercizi davanti a me, fin troppo artistici. Un onesto, tra tanti
    entusiasti, pensa un po' anche a quella povera anima di Pavesi e m'avverte che alle porte di Roma, se
    sarò ancora col compagno, si penserà a buttarmi semplicemente a gambe all'aria. Forse lo sconosciuto
    esagerava; comunque fu con grande gioia che io mi liberai del compagno appena potei sulle ultime
    salite. Il mio arrivo, la vittoria, il trionfo, dopo tante ore di febbre e di ansie. Ecco il fascino di quella
    che fu la più oscura, tra le più suggestive classiche mai disputate. Ora la “XX Settembre” non è più se
    non una bella e dura prova a due tappe; ambita dai leaders come tante altre corse della laboriosa
    annata. Ma la “Roma-Napoli-Roma” è passata, è morta e non esiste più in tutta la sua orrida bellezza,
    se non nella mente e nei ricordi di chi l'ha intensamente vissuta.
    Dopo il 1907 si parlò di finirla col percorso costruito su una sola tirata. Da due o tre anni si erano
    andate moltiplicando le prove in linea: la Milano-Torino, il Giro di Lombardia, il Giro del
    Piemonte, il Giro di Sicilia, la Milano-Modena, la Milano-Mantova, la Milano-Roma (effettuata
    solo nel 1906: troppe le liti tra le due città per fare di meglio), la Milano-Sanremo, ancora oggi in
    vita e che parte nel 1907. Soprattutto il Giro di Lombardia, corsa autunnale, appariva molto simile
    alla XX Settembre: partenza da Milano, arrivo a Bergamo e ritorno, ma solo 240 i km. La tendenza,
    in effetti, era quella di diminuire il chilometraggio. I professionisti e le case avevano esigenze
    nuove. L'esigenza principale era data dalla pubblicità: assurdo fare transitare i corridori in gran
    velocità a Napoli, col pubblico che non riusciva a vedere bene i campioni né le marche delle bici da
    loro usate; più logico scindere in due tronconi la gara e ripartire, al mattino del 20, con gli atleti
    freschi e riposati, tenendo conto dei distacchi accumulati nella prima frazione.
    L'edizione 1906 fu appannaggio di Carlo Galetti, un milanese di Corsico classe 1882, capitano della
    britannica Rudge e futuro vincitore, con la maglia della Bianchi-Pirelli, dei Giri d'Italia 1910, 1911
    e 1912. Pavesi, il favorito, fu buggerato da una caduta. Caduto da solo però, non per botte, spintoni,
    coliche e chiodi, tutte categorie che rientravano nel catalogo normale della XX Settembre. Gianni
    Brera ne parla nel suo Avocatt, corruscando la bonomia di Pavesi del 1913 con l'irritazione verso i
    meridionali che contraddistingue molte sue prose:
    Non è un buon anno il 1906. Faccio esperienze nuove, ma non vinco una gara. Alla XX Settembre
    vengono tutti (dopo che ho rotto il ghiaccio con i romani). La notte, risalendo, slitto sul fango e finisco
    in un fosso presso Capua. Vince Galetti. Arriva solo, come me, nel primo mattino. Io sono intanato in
    una locanda con altri molti, viandanti o sensali, non so. Estenuato, non sono rimasto molto a pensare
    dopo la caduta. Mi chiudono a dormire in un androne. Al primo sonno, un formicolare orripilante di
    cimici. M'alzo rabbrividendo, corro a picchiare, che m'aprano. I compagni di camera, berciando in
    dialetti ostili, mi tirano addosso, per lo meno, scarpe. Debbo aspettare l'alba grattandomi, stroncato dal
    ribrezzo. Giuro che non verrò mai più da queste parti. Ma certe sensazioni, se restassero, porrebbero
    fine al mondo. Invece passano anche le punture delle cimici, al pari dei giuramenti.
    Nel 1907 fu la volta di Gerbi, il «diavolo rosso», di mostrare ai romani e ai napoletani che il più forte
    era lui. Chiuse la prova in poco meno di 21 ore. Ripeté l'impresa nel 1908 e nel 1909, distribuendo
    perfettamente le energie: poco sopra le 17 ore il complessivo e circa 8 ore e mezza a tappa.
    L'astigiano era in quegli anni tra i frequentatori del Tour, assieme a Ganna, Galetti, Pavesi,
    Rossignoli, Canepari, Chiodi e Cuniolo. Tutti ragazzi dell'area lombarda-piemontese, con qualche
    incursione ligure o emiliana. Scendendo a Roma per ordini di scuderia, loro dominavano: superiori
    per tattica di gara, esperienza, modernità di allenamenti, aiuto da parte della Casa, sovente per la
    qualità della macchina che montavano. E questo nonostante le seminagioni di chiodi dei tifosi
    laziali e campani. Motivo minore (quello maggiore individuabile nella scarsa importanza della gara
    rispetto alle tante classiche in Francia e in Belgio) per cui non si vedevano ai Cessati Spiriti i
    fuoriclasse d'oltr'Alpe: Garrigou, Alavoin, Georget, Lapize, Garin, Mazan, Van Houwaert,
    Trousselier e compagnia bella. Alcuni di costoro, ad esempio Garrigou vincitore del Giro di
    Lombardia 1907, partecipavano alle prove al nord. Le loro scelte seguivano logiche di mercato: il
    bacino dei clienti italiani era forte al settentrione, e tutte le case italiane concorrenti delle francesi
    avevano le fabbriche sopra la Pianura Padana. sia dei telai che delle gomme e delle meccaniche
    (Stucchi, Maino, Bianchi, Dei, Atala, Legnano, Otav, Fiat, Pirelli). A Roma le attrezzature per il
    ciclismo erano importate da Torino o da Milano, altrimenti ci si doveva rivolgere alle più costose
    marche francesi e inglesi in vendita nei negozi più prestigiosi: da Solani o alle sorelle Adamoli in
    via del Plebiscito. Fabbrica romana di una certa notorietà, ma ad un livello artigianale con pochi
    dipendenti e assolutamente non industriale, c'era solo quella dei fratelli Bergami a piazza d'Italia.
    Concluso il trittico del “diavolo rosso”, nel 1910 vinse Mario Bruschera, un piemontese. Precedette
    al traguardo il varesino Luigi Ganna, l'alfiere dell'Atala-Dunlop che due anni avanti era stato il
    primo italiano a indossare la maglia rosa al Tour, e il minuscolo Galetti. L'anno prima, Gerbi aveva
    vinto davanti a Pavesi e al torinese Pietro Aymo; l'anno prima ancora, gli erano rimasti dietro
    Chiodi e Ganna, due lombardi. Un dominio polentone che non lasciava spazi d'inserimento ai
    corridori terroni. Nel 1911, per l'edizione del centenario dell'Unità d'Italia, lo strapotere nordista
    generò screzi tra il giornale che patrocinava molte delle gare ciclistiche – La Gazzetta dello Sport –
    e il foglio capitolino che s'era preso la briga di aiutare nell'organizzazione della XX Settembre: Il
    Messaggero. Per la “rosea” patrocinare corse su strada era una questione vitale, pavesata com'era
    di manchettes pubblicitarie legate all'industria della ruota e della gomma; non a caso, due anni
    prima aveva messo in piedi il Giro d'Italia, facendolo transitare per Roma dopo la svolta a Napoli.
    Roma era un terreno di conquista tra i più appetiti, in materia di vendita di bici e materiali accessori.
    Per Il Messaggero – quotidiano politico di sfumatura socialista – il punto focale stava nel
    guadagnare lettori e popolarità sfruttando il boom in progressione del ciclismo, e in più tenere alto il
    prestigio cittadino in un anno così importante. La querelle è sintetizzata in un articolo pubblicato
    sulla rivista torinese La Stampa Sportiva. Esso ci fa capire come il problema del gap industriale tra
    Milano e Roma, motivo della disparità di risultati, della «tirannia» del nord sul centro-sud in merito
    alle competizioni sportive, fosse chiaramente avvertito all'epoca:
    Anche della XX Settembre a parlarne ora, a pochi giorni di distanza, mi par quasi di vivere la parabola
    di Lazzaro fuoriuscente dalla tomba quatriduana al richiamo dolce del Nazareno. Del resto,
    consoliamoci che di corse ciclistiche molto probabilmente fra non molto non dovremo scrivere più.
    Infatti è opinione molto diffusa fra i competenti (e in tal senso anche mi parlava tempo fa un grande
    campione italiano) che esse volgono non lentamente e inesorabilmente al loro definitivo tramonto. Le
    Case non si sentono più di sostenere le enormi spese che ora sostengono per quel po' di réclame che
    una eventuale vittoria loro frutta, ed anche nel pubblico si vanno notando certi segni non dubbi di
    stanchezza. Molte Case francesi non fanno già correre più. Consoliamoci dunque. Ma la XX
    Settembre si è corsa per la decima volta. La XX Settembre si correva quando in Italia appena si
    parlava di ciclismo. Ed è stata interessantissima. L'interesse è cominciato molto tempo prima che
    venisse disputata. Infatti essa ha avuto l'onore di dar luogo a una polemichetta di carattere politicosentimentale
    svoltasi fra un distintissimo giornale romano, che aveva steso sulla derelitta corsa le ali
    protettrici della sua popolarità, e un giornale sportivo milanese – dirò così – color dell'alba. Come
    precisamente si sia svolta questa polemica io fortunatamente ignoro… pare però, a quanto mi si
    racconta, che il giornale color dell'alba non vedesse di buon occhio, non si sa per quale ragione, o
    almeno per amor di patria si finge di non saperlo, lo svolgersi di detta gare che pare per il passato
    aveva avuto tutta la sua incondizionata simpatia. Pare anche che nel fervore della polemica il giornale
    del colore di cui sopra, sia giunto a un punto di sdegno tale da qualificare la XX Settembre, non so se
    per malanimo o per sublime incoscienza, «una delle solite corsette domenicali», mentre neanche a
    farlo apposta, la XX Settembre si è disputata nei giorni di martedì e mercoledì, cioè in due
    volgarissimi giorni feriali. (…)
    «Corsetta domenicale». Così è stata definita l'unica, badate bene, l'unica competizione sportiva
    italiana che racchiuda un nobilissimo significato patriottico. Nobilissima significazione patriottica
    che, ad evitare una gratuita patente di ingenuità, risparmiamo di illustrare anche
    sommariamente ai nostri spregiudicati sprezzatori ambrosiani. L'omaggio alla colonna di
    Porta Pia, prima della partenza? Qu'est-ce que c'est que ça? L'Italia ce l'hanno fatta i nostri
    nonni: noi non abbiamo altra funzione storica che quella di fare gli italiani. Funzione meno
    pericolosa e direi anche più piacevole. «Corsetta domenicale» nel giorno della fiera mandamentale
    d razze equine, nevvero? Andate là, che il governo di Mery edl Val sarà contento di voi. Del resto non
    è detto che i giornalisti sportivi debbano conoscere la storia. Basta sappiano talvolta maneggiare bene
    o male le armi viete della denigrazione. Così si è detto dell'unica corsa italiana che mascheri
    l'affarismo che le dà vita sotto l'usbergo di una data gloriosa. E qui si pone, mio malgrado, l'eterna
    questione della pretesa inerzia meridionale (…) Quello che manca all'Italia meridionale è l'industria,
    cioè il denaro. La passione sportiva è gigante, ma la tasca è colore dei prati a primavera. Mancano
    Case industriali che crescano le migliori energie ai loro interessi e se le disputino per le loro
    competizioni finanziarie, mancano uomini che possano accontentarsi di trarre dallo sport la
    risoluzione del quotidiano, esasperante problema della vita. Del resto c'è tutto, credete a me. (…) Così
    succede che pochissimi possano permettersi il lusso di occuparsi di sport o per lo meno di organizzare
    gare sportive con quella solerzia e munificenza che distingue altre razze ed altre stirpi del comune
    ceppo italico. Perché, e spero che su questo punto siamo d'accordo, senza denari non si fa niente. E da
    noi disgraziatamente quei pochi che ci sono in giro sono in mano a gente che tutto forse saprebbe
    fuorché dire una parola di competenza in fatto di sport. Invece in Alta Italia col grande sviluppo
    dell'industria ciclistica, automobilistica e similari si è creato un ambiente di generosi industriali cui
    non manca né la competenza né l'entusiasmo, né tanto meno l'oro che per definizione musicale è del
    mondo signor. E mai signoria fu esercitata con tanta tirannia.
    La tirannia aveva il suo Mercurio nella réclame, anima di tutte le corse ciclistiche. Anche se sarebbe
    errato credere che il successo nelle competizioni fosse l'unico modo per infilarsi nelle tasche degli
    acquirenti. Come notava Vittorio Varale, in un articolo su Lo Sport Illustrato del 1915, il motto
    Atala ha caldo e si fa vento, comparso nel 1909, aveva fatto furore ed era servito alla ditta «quasi
    come una vittoria in una grande corsa». Comunque, a dare una ventata d'aria fresca alla XX
    Settembre giunse nel 1911 il trionfo di Dario Beni. Questi fu il primo idolo sportivo della folla
    romana, il primo ciclista capace di ribaltare gambe all'aria i grimpeurs nordisti e farsi scritturare da
    una squadra di professionisti: la Bianchi. Classe 1889, a vent'anni era partito con venti soldi in tasca
    e aveva vinto due tappe, la prima e l'ultima, del Giro d'Italia d'apertura; in tribuna, l'aveva
    applaudito niente meno che Guglielmo Marconi. Quindi s'era aggiudicato il campionato tricolore
    su strada, corsa in linea da tre stagioni appannaggio dall'asso piemontese Giovanni Cuniolo. Il 1911
    fu il suo anno d'oro: vinse anche una tappa del Giro d'Italia e la Corsa delle Tre Capitali, prova a
    tappe Torino-Firenze-Roma molto pubblicizzata e mai più ripetuta. Il problema col ragazzo del
    Tiburtino stava nel fatto che, se te lo portavi in volata dopo un paio di centinaia di polverosi
    chilometri, eri fritto: nella Tre Capitali, entrando nell'appena costruito Stadio Nazionale ai Parioli,
    fece secco Henry Pelissier, uno dei re francesi della route. Il 20 settembre 1911, Beni tagliò da
    vincitore il traguardo sulla pista del Motovelodromo Appio, innalzato l'estate avanti per dare alla
    città un posto dove rullare le gare dei pistards. L'ampio viale militare del vicino campo d'aviazione
    a Centocelle aveva consentito, per nove edizioni della corsa, d'approntare zone d'arrivo comode al
    pubblico col punto d'appoggio all'osteria dei Cessati Spiriti. Ma ora, grazie alla consolare Appia
    Nuova, il motovelodromo si costituiva come un punto di riferimento per il ciclismo agonistico su
    strada e su pista; l'Appio rimetteva Roma alla pari con Milano, Torino, Bologna e Firenze. Non pari
    fu l'organizzazione della gara del centenario dell'Unità d'Italia, però, con deficienze nei cartelli di
    segnalazione che portarono ben pochi corridori ad imboccare a Napoli il vialone di Casoria. Altri
    arrivarono da direzioni impreviste, e perfino da Poggioreale: quelli che di nascosto avevano preso il
    treno!
    Beni si ripeté nel 1912, concludendo una gara tornata “in linea” ma invertita: l'andata lungo la via
    Appia e il ritorno sulla Casilina. Arrivo allo Stadio Nazionale, in quanto l'Appio era off-limits per i
    costi di gestione non sopportabili dai privati che l'avevano arditamente edificato. Perché tanti
    mutamenti? Era successo che la Forza e Coraggio per un dissidio aveva abbandonato l’UVI, e ne
    era seguita una crisi che aveva portato al temporaneo scioglimento del club. A quel punto,
    l'avvocato Felice Tonetti, patron dell'Audace e velocipedista dei tempi del Velodromo Salario,
    aveva sostituito Nino Ilari e organizzato lui la corsa, ripristinando la formula della tappa unica
    aperta ai licenziati professionisti UVI. L'avvocato Tonetti – un omaccione con una gran barba che
    durante l'era fascista sarebbe diventato un alto dirigente del CONI – la accoppiò ad una gara di
    dilettanti da Roma a Velletri. Nel suo sforzo organizzativo ebbe il sostegno de Il Messaggero e di
    un altro foglio da poco nato, L'Italia Sportiva. Il Messaggero mise in palio una coppa d’argento del
    valore di cinquemila lire, destinata alla società d'appartenenza del primo arrivato. Finì che andò ad
    arricchire la bacheca dell’ACS, mercé la vittoria di Beni arruolato nella polisportiva biancorossa. I
    piazzamenti di Gino Brizzi e di altri audaciani garantirono la Targa Nelli (a squadre), mentre
    Umberto Della Seta vinse, tra i dilettanti, la Coppa dell’Industria della Roma-Velletri di 200 km.
    Dobbiamo dire che l'Audace, la Cristoforo Colombo, lo Sporting, la Forza e Coraggio e altre società
    capitoline allestirono, in quegli anni a ridosso della Grande Guerra, molte gare in linea di nuovo
    conio. Citiamo la Roma-Civitavecchia, la Roma-Frascati-Roma, la Roma-Soriano, la Roma-
    Fiumicino-Roma, la Roma-Anzio-Nettuno, la Corsa Nazionale Principe di Piemonte, il Bracciale
    Romano. E fu tentata persino, nel 1913, l'organizzazione di una Parigi-Roma, col concorso dei
    giornali L'Auto e La Gazzetta dello Sport; progetto ambizioso poi annullato per l'esitazione di
    alcune equipes, l'ostilità di altri giornali e i problemi logistici che avrebbe comportato. Diversi
    ciclisti romani partecipavano ai Giri d'Italia in qualità di “isolati”, cioè free-lance in cerca d'ingaggi.
    In generale, l'interesse della gente che abitava il centro-meridione per le manifestazioni agonistiche
    su strada era molto aumentato rispetto al principio del secolo. La XX Settembre – regina delle corse
    ciclistiche a sud di Firenze – aveva giocato la sua parte nell'incremento di questo interesse.
    Nel 1912 essa partì dall'Acqua Santa, sulla via Appia, alle undici di sera. All'Acqua Santa c'era il
    campo del Golf Club, che poteva fornire un appoggio logistico; accanto vi passava la Ferrovia
    Roma-Formia-Napoli. Il manipolo di «pro» imboccò la direzione di Albano in un caos d'automobili
    a manovella, suivers ingobbiti sui manubri e ammiratori a piedi che volevano a tutti i costi toccare e
    scambiare quattro chiacchiere con Dario Beni. Le fasi iniziali, nella cronaca del reporter de L'Italia
    Sportiva, rendono bene il polso della situazione e soprattutto la partecipazione della gente:
    Alle 11,12 finalmente dall'Acqua Santa, la Giuria, che è col cav. Pegazzani sull'automobile che
    seguirà la gara, dà il via al piccolo, ma forte manipolo d concorrenti. In mezzo al buio fittissimo della
    notte si sono slanciati sulla cattiva strada acciottolata che mena ad Albano: sono in fila indiana e si
    scorgono nel netto raggio di una luce proiettata dai fari delle automobili, nel grande buio della notte.
    E' in testa Beni (…) In mezzo al silenzio suggestivo della immensità dell'Agro addormentato, rotto
    solo dal rumore degli ingranaggi delle macchine che sbalzano sulla ineguaglianza della strada, il
    gruppo sempre condotto ad andatura veloce si allontana verso la salita delle Frattocchie, ove il passo
    vien maggiormente forzato. I biancoelesti [il riferimento è a Beni e Santhia, capitani della Bianchi,
    ndA] hanno intenzione di liberarsi il più presto possibile degli avversari, poiché è ora Santhia che
    conduce per la lunga salita e i più deboli cominciano già a dar segni di stanchezza. Ad Albano
    abbiamo un primo tentativo di Beni per staccare il gruppo. Egli, che trovavasi in breve vantaggio,
    fugge con Brizzi. Santhia e gli altri che han perduto contatto trovano difficoltà nella folla, che con
    lampioncini e bengala è rimasta ad attendere i corridori fino a questa tarda ora e li saluta con grandi
    evviva. Il saluto è poi ripetuto nelle più svariate maniere con luminarie e fuochi d'artificio fino alle
    ultime ore della notte, attraverso tutti i paesi che ci è occorso traversare, per tutto il percorso dove si è
    fatto a gara ad incoraggiare tutti indistintamente i concorrenti. (…) I biancocelesti forzano per il ben
    noto viale alberato che traversa Ariccia e Genzano festanti e proseguono per la nuova strada che
    conduce a Velletri, favoriti nella loro fuga dai potenti fari della loro vettura di rifornimento. Indietro
    delle scene tragicomiche avvengono fra i ritardatari che, nel buio più completo, sotto la cappa degli
    alberi s'investono reciprocamente, scartano nelle rotaie del tram e procedono con la velocità
    spaventosa di circa sedici chilometri l'ora! Il solo Pifferi, più audace e fortunato, insegue veramente
    schivando tutte le difficoltà, e gradatamente va riaccostandosi ai primi, che sorpassato Velletri si sono
    precipitati per le montagne russe che precedono Cisterna. Dopo questa piccola cittadina si inizia la
    lunga e snervante fatica della «fettuccia» di Terracina…
    Beni transitò a Napoli alle sette e mezza del mattino. Vinse sul traguardo di Roma col tempo di 18
    ore e 20 minuti, stracciando il record di Gerbi del 1907. Entrò da solo nello Stadio precedendo
    Giuseppe Santhia, uno dei pochi nordisti scesi a disputare la classica corsa nazionale riproposta
    nella sua temibile formula notturna. Durante la gara, i due, in fuga collaborativa, avevano
    minacciato d'abbandonare per ragioni di vitto: il romano voleva dal signor Remo Vigorelli, che
    guidava l'auto della Bianchi, delle banane, ma quello non ce le aveva; teneva polli, pasticcio di
    pasta, costolette, pesche, acqua minerale ma non le preziose fonti di potassio. Santhia pretendeva
    invece del salame, e Vigorelli addirittura si fermò a una locanda, prima d'arrivare a Napoli, per
    comprare l'energetico alimento. Il duello, a parte i dispettosi rallentamenti dei due campioni a causa
    delle banane e del salame, fu straordinario. L'Italia Sportiva scrisse del divo Beni:
    Se, dunque, una media di più che 26 chilometri l'ora è stata facilmente tenuta dal Campione Romano,
    in questa gara dove la competizione certo non è stata vivissima, sarebbe stata sorpassata qualora
    avversari degni di lui gli fossero stati opposti. Santhia ha dato prova di eccezionale valentia, ripetendo
    a quindici giorni dalla Seicento Chilometri uno sforzo quasi ugualmente titanico ed arrivando a
    pochissimo distacco da Beni, dopoché un incidente gli toglieva l'onore di giungere in volata con il
    beniamino delle folle. Beni, infatti, è divenuto per le folle meridionali quello che un giorno fu Gerbi
    per le settentrionali: ovunque egli era atteso, incoraggiato, applaudito!
    Nel 1913 Il Messaggero prese decisamente in mano la corsa, giacché la Forza e Coraggio aveva
    ottenuto dall'UVI il placet per organizzarla ma era obiettivamente troppo debole per farlo bene. Il
    Messaggero sistemò le cose in modo da imporre un cambiamento dell'itinerario: non più una gara
    laziale-campana, bensì laziale-abruzzese-umbra in due frazioni, e il traguardo della prima tappa
    posto a Rieti. Al di là delle parole di comodo addotte dai patrocinatori, il motivo del cambiamento
    appariva intuibile: Napoli per il più venduto quotidiano capitolino non era una piazza appetibile
    quanto gli Abruzzi e l'Umbria, aree di penetrazione nuove, mercati da conquistare. A Napoli era
    sempre stato Il Mattino a compiere i passi necessari per dare un minimo di organizzazione locale
    alla corsa. Antonio Scarfoglio delegava della cosa il noto sportsman Alessandro Joima. Fu ovvio
    che i napoletani non accettarono la novità, rinfacciando ai romani la simpatia con la quale avevano
    sempre accolto la manifestazione e i suoi protagonisti. Ma la dodicesima edizione della XX
    Settembre, dando un bel calcio alla tradizione, ebbe luogo senza Napoli. Il 19 settembre, fatto il
    raduno a Porta S. Giovanni, alle cinque della sera partirono in 27, da Porta Furba e per mano dello
    starter Raffaele Garinei, giornalista sportivo de Il Messaggero. Tra i corridori iscritti, a contendere
    la vittoria a Beni quasi tutti i più forti stradisti nordisti: Ganna, Gerbi, Galetti, Santhia, Lombardi,
    Corlaita, Cervi, Pifferi, Pavesi, Albini, Sivocci, Calzolari e l'ultima rivelazione in assoluto: il
    ventenne Costante Girardengo. I corridori imboccarono la via Tuscolana e toccarono Frascati,
    Colonna, Frosinone, Cassino, svoltarono a nordest per Sora ed entrarono negli Abruzzi tenendo
    d'occhio il fiume Liri. Passata Avezzano, dalla via Tiburtina presero la Salaria e al traguardo di
    Rieti i migliori arrivarono insieme; anche Beni, che dalle parti di Avezzano aveva usufruito del
    rimorchio di una motocicletta per rientrare nel gruppo di testa. Ripartirono alle sei meno un quarto
    del 20 da Porta Cintia, a sole già alto e con 45' di ritardo sul programma; se la pigliavano comoda, e
    così era stato alla partenza da Roma, tramontati i tempi della puntualità per la trafila burocratica:
    firma dei fogli, incolonnamento, appello. Ai «pro», che erano ormai delle vedettes, piaceva dormire
    un po' di più, e nessuno dei commissari di gara osava contraddirli. Inoltre, nel tempo che
    mangiavano la loro bella colazione, in piazza aumentava la folla, e la cosa cascava a fagiolo per gli
    affari delle case impegnate. Questi dettagli ci dicono dei cambiamenti dalla prima XX Settembre, a
    parte gli itinerari diversi; e del fatto che già sui giornali si parlava delle classiche ciclistiche come
    di eventi che avevano a che vedere più coll'industria del ciclo e della gomma, la
    commercializzazione di un bene di consumo popolare, che con lo sport puro e semplice.
    Da Rieti a Roma, il gruppo dei superstiti, una ventina, fece la discesa delle Cascate delle Marmore,
    passò per Terni e Perugia, dove Girardengo giunse da solo avendo fatto il vuoto sulla salita della
    Somma, transitò a Civita Castellana, a Rignano lungo la via Flaminia fiancheggiando il Monte
    Soratte, e poi a Morlupo, a Castelnuovo di Porto e a Prima Porta. Fu una fiacca caccia, ad opera di
    Ganna, Galetti, Beni e Gerbi. Girardengo entrò nello Stadio Nazionale dei Parioli in perfetta
    solitudine. Tagliò il traguardo alle 17 e 17, coprendo i 305 km in 11 ore e 32 minuti alla media di
    26,514 kmh. Dopo mezzora apparve il secondo, Giosuè Lombardi, e subito a seguire un quartetto
    formato da Ganna, Galetti, Calzolari e Sivocci. La XX Settembre del 1913 fu una delle prime
    grandi vittorie per quello che, un giorno, sarebbe rimasto – in virtù delle sue 126 vittorie su strada e
    965 su pista – nella leggenda dello sport azzurro come «il campionissimo». Nel 1913 il fuoriclasse
    di Novi Ligure guadagnava uno stipendio di 180 lire al mese, come un ministro, pur essendo semi
    analfabeta.
    L'anno dopo Dario Beni si aggiudicò l'ultima sua XX Settembre, in un'edizione imperniata su di una
    sola tappa e con l'arrivo di mezzo a Napoli. Al traguardo di Roma precedette il lissonese Ugo
    Agostoni, vincitore della Milano-Sanremo, e i conterranei Pifferi, Michelangeli e Brizzi. Per onor di
    cronaca, bisogna dire che la corsa fu falsata da un atto di vandalismo di alcuni tifosi che, al ritorno,
    sulla strada in discesa presso Velletri sparsero manciate di chiodi subito dopo il passaggio dei
    corridori romani, provocando le indignate proteste di vari campioni forestieri. Così, col “piff” dei
    tubolari di piemontesi, liguri, emiliani, veneti e lombardi che s'afflosciavano, calò il sipario
    sull'epoca pionieristica della gara ciclistica più famosa del meridione. Lo scoppio della prima guerra
    mondiale funse da cesura per la metamorfosi della classica gran fondo, che sarebbe rinata altre due
    volte e sotto sembianze diverse. Beni, dal canto suo, s'ammogliò, sfornò una nidiata di bambini e
    mise a frutto i sudati guadagni aprendo un negozio di articoli sportivi dapprima a via Merulana,
    come rappresentante di cicli e motocicli Peugeot, e poi, nel dopoguerra, a Santa Maria Maggiore;
    negozio che, per qualche tempo, funzionò da ricevitoria delle scommesse sui vincitori del Giro
    d'Italia. A già… le scommesse: una caratteristica anche della XX Settembre, con modalità
    clandestina e non sottoposta a regimi fiscali di sorta.
    Gli anni dei campioni (1918-1934)
    Ci siamo dilungati nella descrizione delle prime tredici edizioni e c'è un motivo: l'epopea della XX
    Settembre in gran parte sta lì. Il suo fascino, il suo mito. Come nomi, tuttavia, le quattordici edizioni
    tra le due guerre e le dodici del periodo repubblicano non sono da meno. Hanno entrambi, questi
    periodi, parterres des rois notevoli: Girardengo, Binda, Belloni, Guerra, Robic, Kubler, Magni,
    Ockers, Bobet. E anche Fausto Coppi e Gino Bartali mai vincitori finali ma spesso protagonisti.
    Nel 1918, a guerra non ancora conclusa, la quindicesima edizione trovò l'ostacolo della Gazzetta
    dello Sport, che per il 20-22 settembre aveva allestito una Milano-Roma in due tappe, via Bologna,
    rastrellando i migliori professionisti. Ma Il Messaggero e il Fascio delle Società Sportive Romane,
    un nuovo ente che comprendeva la F&C, reagirono al colpo basso. Si appoggiarono ad Augusto
    Ciuffelli, ministro dell'Industria, del Commercio e del Lavoro nel governo Orlando, per organizzare
    ugualmente la corsa. Il perugino Ciuffelli mise in palio una coppa d'argento e l'itinerario scelto lo
    gratificò del passaggio dei corridori sotto le finestre del suo palazzo nobiliare a Todi. La gara si
    articolò su due tappe: da Roma a Perugia (190 km), via Terni, e da Perugia a Roma, passando per
    Viterbo e lungo la Flaminia (211 km). Al mattino del 19 settembre 1918 partirono da Ponte Milvio
    in 38, di cui appena 9 i professionisti, tutti “isolati” che non appartenevano alle équipes delle case
    industriali. Alcuni fra loro avevano dovuto chiedere un permesso speciale per lasciare i fronti del
    Friuli e delle Venezie e prendere parte alla prova. L'organizzazione si avvalse dell'aiuto della
    Unione Ciclistica Ternana e della polisportiva Braccio Fortebraccio di Perugia. La Croce Rossa
    fornì un servizio e la cantante lirica Luisa Tetrazzini donò una coppa del valore di mille lire. Al
    traguardo di Perugia giunse primo il milanese Giovanni Santagostino, in 15 ore e 21 minuti, seguito
    dagli audaciani Marzio Germoni e Ferdinando Di Gennaro. Ma nel ritorno, appena passata Città
    della Pieve, Santagostino si ritirò a causa di una colica. Ne approfittò il romano Giuseppe Pifferi
    che, recuperato lo svantaggio accumulato nella prima frazione, in 7 ore e 18 minuti transitò
    vincitore al traguardo dei Cessati Spiriti, precedendo Germoni, il milanese Giovanni Cocchi e il
    suo conterraneo Alfredo Jacobini. Due giorni dopo, lo Stadio Nazionale accoglieva Carlo Galetti
    trionfatore alla Milano-Roma. L'edizione 1918 fu chiaramente boicottata dalla stampa e
    dall'industria ciclistica del settentrione, che non le diede alcuna rilevanza. Ma il sabotaggio, seppure
    bene orchestrato, non fu sufficiente per ucciderla.
    Nel 1919 la XX Settembre riprese il percorso classico diviso in due frazioni: 254 km da Roma a
    Napoli per la via Casilina e 212 da Napoli a Roma lungo la via Appia. La gara ritrovò la sua ragion
    d'essere grazie all'appoggio della Federazione Ciclistica e alla nuova formula da questa escogitata
    per l'effettuazione del campionato italiano su strada, articolato su sette prove: Milano-Sanremo (6
    aprile), Milano-Torino (13 aprile), Giro del Piemonte (4 maggio), Giro dell'Emilia (31 agosto), XX
    Settembre (19-20 settembre), Milano-Modena (5 ottobre) e Giro di Lombardia (2 novembre). Corse
    quasi tutte appannaggio di Costante Girardengo, dominatore del Giro d'Italia e che stava vivendo il
    periodo fulgente della sua carriera. “Gira” non prese parte, tuttavia, alla classica del meridione, che
    andò al milanese Alfredo Sivocci davanti a due veterani pure del nord: Giuseppe Azzini e Giosuè
    Lombardi. Lo strapotere dell'«omino di Novi» era tale che egli si concedeva il lusso di conquistare
    la maglia tricolore evitando di correre tutte e sette le prove; il regolamento a punti, infatti,
    permetteva di fare dei calcoli. Nel 1920 Girardengo non partecipò alla XX Settembre e al Giro di
    Lombardia ma vinse lo stesso il campionato, seppure di un solo punto su Gaetano Belloni. La
    sedicesima edizione fu la più povera per qualità di tutta la storia della classica. Non mancò di
    evidenziarlo La Gazzetta dello Sport in una succinta cronaca piazzata in prima pagina:
    La XX Settembre si è corsa, malgrado l'assenza degli attesi e dei loro coequipiers, ma si è ridotta a una
    competizione di isolati, priva di importanza e soprattutto priva di combattività. Non è il caso di rilevare
    i commenti romani violentissimi e battaglieri, che vanno da uno sfogo del Messaggero, che minaccia i
    divi del pedale del settentrione di accoglienze clamorose qualora osino venire in seguito a Roma, alle
    conversazioni degli sportivi romani per la costituzione di una federazione dell'Italia centrale che
    comprenda tutti gli sports, per liberare lo sport romano dai legami che lo stringono necessariamente al
    settentrione. Non crediamo che queste minacce potranno divenire reali, poiché passato il momento di
    dispetto il buon senso finirà per prevalere. La cronaca della corsa è presto fatta. Su dieci iscritti solo
    otto sono partiti. Sulla salita delle Frattocchie, a pochi chilometri da Roma, tre concorrenti hanno dato
    battaglia e sono fuggiti rapidamente distaccando gli altri: Petiva, Marchi e Bordin. Nessuno ha saputo
    riprendere il comando dell'inseguimento. Presso Cisterna, Petiva e Bordin urtano in un masso e
    cadono. Emilio Petiva deve arrestarsi per nove minuti per riparare. Marchi invece rimonta in sella e va
    sicuro verso il successo. Egli arriva infatti a Capua con 25 minuti di vantaggio. Questo aumenta
    sempre di più fin sul traguardo. Ecco l'ordine dia arrivo: 1° Marchi Angelo dell'Itala di Firenze alle
    17.10'16”, compiendo i km 408,600 in ore 17.16'. 2° Bordin Lauro alle 18.30'. 3° De Biase Nicola
    fuori tempo massimo.
    Fu proprio Girardengo, nel 1921, a risollevare definitivamente la corsa. Insidiato da Giovanni
    Brunero e da Federico Gay, che gli avevano strappato due delle precedenti prove, il portacolori
    della Stucchi si allineò per la seconda volta alla partenza di una XX Settembre, diminuita però nel
    suo impegno: appena 320 chilometri in una sola giornata. L'itinerario seguì le vie Appia, Tiburtina e
    Tiburtina Valeria, lungo la boscosa valle dell'Aniene: Roma, Albano, Ariccia, Genzano, Velletri,
    Artena, Valmontone, Ferentino, Frosinone, Ceprano, Arce, Isola Liri, Sora, Balsorano, Civitella
    Roveto, Capistrello, Avezzano, Scurcola, Tagliacozzo, Colli di Monte Bove, Carsoli, Arsoli,
    Vicovaro, Tivoli, Roma. Ogni cittadina aveva un suo premio di traguardo: un bell'incentivo per i
    corridori, tutti professionisti. Una quarantina gli iscritti, compresi gli isolati e gli juniores, e tra loro
    i più forti: Corlaita, Azzini, Beni, Belloni, Gremo, Gay, Santhia, Brunero, Bartolomeo Aymo,
    Sivocci, Arduino, Calzolari. E' interessante rilevare la geografia dei partecipanti: un terzo romani e
    due terzi del nord, in buona parte delle provincie di Torino e Milano. Girardengo, come al solito,
    mise d'accordo il reggimento. La partenza fu data dal cronometrista ufficiale, Nino Ilari, alle cinque
    e un quarto del mattino del 20 settembre dai Cessati Spiriti, sul vialone antistante il motovelodromo
    mezzo diroccato. Sempre per l'organizzazione de Il Messaggero, che metteva in palio una grande
    coppa, e il contributo di uomini della Forza e Coraggio. Beni, tornato difensore dello Sporting Club,
    fu il primo a porre la firma sul foglio di partenza, ma gli anni erano passati e non poteva più essere
    un protagonista. Sei erano le auto al seguito, colme dei cosiddetti soigneurs, i tecnici per gli aiuti.
    Quella della giuria, con a bordo il commissario di gara, Vitanzi, e il commissario dell'UVI, Cesare
    Vittorio, più le macchine delle case in lizza per il primato nazionale: Bianchi, Pirelli, Stucchi,
    Dunlop e Legnano. Tra i giornalisti spiccano i nomi di Ezio Spositi, poi dirigente di primo piano
    della federazione ciclistica, di Attilio Morresi, storico capo della redazione sportiva de Il
    Messaggero, e di Romolo del Papa, il più importante fotografo sportivo di Roma degli anni tra le
    due guerre.
    La corsa scivolò monotona fino ad Avezzano, dove transitarono ingruppati in ventidue. Sulla salita
    di Monte Bove, a quota 1.200 metri e a 77 km da Roma, avvenne la selezione. I grimpeurs più
    accreditati se ne andarono: Aymo, Brunero, Belloni, Girardengo, Gay, Arduino, Azzini e Gremo. La
    discesa verso Tivoli fu velocissima e non mutò la situazione. Poco dopo le sei, con un ritardo di
    oltre un'ora causato dalle strade polverose e malmesse, definite dalla stampa nordista «le infami
    strade del Lazio», i corridori giunsero in vista dello Stadio Nazionale, che era stato non da molto
    attrezzato di una semplice pista in cemento per le riunioni col totalizzatore dei pistards. Un urlo
    altissimo accolse l'annuncio del loro prossimo arrivo, emesso verso il cielo da una folla straripante e
    per nulla disciplinata. “Gira”, che oltre ad essere un ottimo passista e scalatore possedeva uno sprint
    al fulmicotone, guizzò primo precedendo Belloni, alfiere della Legnano, e lo juniores Gay. Chiuse
    in diciotto ore e venticinque minuti, ad una media di kmh 23,850. Il totalizzatore lo dava vincente a
    lire 14, piazzato a 15; meglio di Belloni a 20 e di Gay a 22. Pronostici rispettati. (Ecco il motivo
    dell'agitazione delle migliaia di spettatori: molti avevano scommesso forte). Contemporaneamente,
    si disputava una XX Settembre ciclo-motoristica. Il gioco del totalizzatore per quell'evento andò
    completamente deserto; dettaglio che la dice lunga sul favore che il ciclismo aveva a Roma rispetto
    al motorismo. I futuristi Marinetti e Cangiullo in quei giorni davano il Teatro della Sorpresa, ma
    non ci furono sorprese alla XX Settembre. Ed era chiaro che Girardengo, gnomo ridente vestito di
    maglia tricolore che eseguiva il giro di pista con un mazzo di fiori più grosso di lui tra le braccia,
    aveva preso il posto di Beni nel cuore dei quiriti. I confusi attimi finali nella cronaca del settimanale
    torinese La Stampa Sportiva:
    E' il tramonto quando le ventimila persone che sono presenti scattano in piedi per acclamare il gruppo
    di testa che entra velocissimo in pista. Si teme l'invasione dell'ultimo chilometro e perciò l'incidente
    che ha caratterizzato l'arrivo della tappa Napoli-Roma dell'ultimo Giro d'Italia, quando la presenza
    degli spettatori sulla pista ha troncato ai leaders le loro speranze migliori. Carabinieri e guardie regie
    tentano di trattenere la folla che avanza inesorabilmente mentre si compie la volata finale. Ma i loro
    sforzi sono vani perché gran parte del pubblico riesce a penetrare nella pista, si schiera lungo il
    rettilineo d'arrivo impedendo il regolare andare della gara. A stento i commissari sportivi, i giudici
    d'arrivo e i cronometristi riescono a mantenere i loro posti liberi. Girardengo che è sbucato fra i primi
    al passaggio di accesso allo stadium accelera l'andatura mentre Brunero rallenta e Belloni si slancia
    all'inseguimento del suo eterno rivale. Azzini insegue a una macchina. Nel rettilineo d'arrivo
    Girardengo riesce a tenere la posizione, ad onta degli sforzi di Belloni per rimontarlo. Gay giunge
    terzo a ruota, seguito a qualche lunghezza da Azzini. Appena il campionissimo ha tagliato il traguardo
    sembra che la folla sia animata da una follia. Tutti si precipitano per le gradinate scavalcando i muri di
    cinta della pista e invadono la vasta pelouse; il tavolo delle firme scompare. Gli stessi corridori
    esausti stanno per essere travolti. Qualche macchina viene sfracellata. L'intervento degli agenti della
    forza pubblica non riesce a contenere la furia spasmodica degli spettatori che impediscono ai
    ritardatari di finire regolarmente la corsa.
    La frenesia dei romani per gli «assi» del ciclismo è spiegabile. Basta leggere un passo di uno scritto
    di Bruno Roghi apparso su Lo Sport Illustrato nel 1924, numero speciale dedicato al Giro d'Italia:
    Il ciclismo: fategli largo! Oggigiorno le strade, le placate strade che segano9 le regioni e raccordano
    borgate e città, hanno un temperamento elettrizzato. Una volta si accontentavano di sgranare durante il
    giorno il rosario dei carri sonnolenti e di addormentarsi la notte cullate dal canto dei galli e dalle rane.
    Oggi le ha prese la nevrastenia: sobbalzano sotto i morsi dei veicoli automatici che sputano zaffate di
    benzina. Le strade hanno fretta, non adoperano più i paracarri per la sosta del viandante, ma ne usano
    come pugnali da piantare nel cuore delle motociclette e delle automobili. E passano attraverso i paesi,
    ravvolte nel mantello della polvere sollevata, come seccantissimi uomini d'affari. Eppure, in tanta
    dittatura di modernità, la bicicletta non muore. Anzi trionfa. La bicicletta è la massaia dei mezzi di
    trasporto. Non conosce le macchine addizionatrici dei chilometri, non conosce le stregonerie delle
    «medie» trascendentali. Fa il suo traffico, fa il suo bene, fa il suo onesto mestiere. Sta la sistema della
    locomozione moderna come la nota della spesa domestica sta al bilancio di una società anonima. In
    questa aderenza alle virtù elementari dell'uomo è la forza della bicicletta nella vita della nazione. E la
    bicicletta diventa ciclismo come la parola diventa eloquenza.
    Tertulliano del ciclismo italiano anni dieci e venti, maestro dei retori della bici era Girardengo, che
    nel 1922 e 1923 assestò un trittico di successi utile a continuare a vestire la maglia bianca, rossa e
    verde. Nel 1924 avrebbe centrato sicuramente il full (contando l'edizione 1913) senonché,
    all'altezza di Prima Porta, dei chiodi buttati ad arte gli mandarono a carte e quarantotto la vittoria.
    A sorpresa, trionfò Romolo Lazzaretti, un grossetano di Arcidosso che profittò di un guasto
    meccanico occorso all'altro campione sceso dal nord e favorito dai pronostici, il fiorentino Pietro
    Linari, fresco trionfatore alla Milano-Sanremo. Lazzaretti, alfiere della casa italiana Jenis,
    precedette al traguardo dello Stadio il bolognese Michele Gordini e lo stesso Girardengo. Quella
    stagione il maremmano – un tipo alto e possente di muscolatura, temibile soprattutto nelle corse più
    dure dal punto di vista atmosferico e del chilometraggio – si era già aggiudicato la Bologna-Fiume
    al Giro d'Italia. Classe 1896, il buon Romolo, insieme al fratello Remo, nel 1916 aveva aperto a
    Roma, in via Bergamo proprio davanti a piazza Fiume, dove un tempo sorgeva il velodromo
    Salario, una ‘bottega d’arte’ che ancora oggi costituisce uno dei templi del ciclismo capitolino. E
    dal 1930 la Coppa Lazzaretti sarebbe stata un’ambita classica cittadina.
    Nel 1925 Girardengo tornò a vincere una XX Settembre sempre più aliena dall'originale e ridotta a
    299 km, ma sarebbe stata l'ultima volta per lui. Pochi mesi prima, Alfredo Binda, l'asso lanciato
    classe 1902, gli aveva rifilato cinque minuti alla Napoli-Roma del Giro d'Italia, soffiandogli la
    maglia rosa. E i due sinceramente si detestavano. Le prime cinque prove del campionato italiano
    1926, spartite tra Gira e Binda, posero sul piatto la questione della prossima fine del dominio del
    novese, che durava dal 1913. Nativo di Cittiglio, paesotto del varesino, Binda mostrava la classe e
    la freschezza necessarie per dare il cambio a Girardengo. Se ne accorsero gli allibratori romani, che
    diedero sulla stessa linea i due assi alla vigilia della corsa. Il 15 settembre Il Messaggero informò i
    lettori sul fatto che l'organizzazione fosse ormai ultimata, per un itinerario circoscritto al Lazio e
    anche questa volta indirizzato verso oriente. Pronti si dicevano il comitato romano e pronti i
    sottocomitati dei comuni sedi dei traguardi volanti. Grande l'attesa della popolazione laziale:
    Lungo tutto il percorso nelle piccole borgate, nelle cittadine industri e finanche nei casolari
    perduti fra le fertilissime vallate o arrampicati sulle rocce scoscese si aspetta impazienti il
    «grande giorno». Pochi avvenimenti possono destare, come l'attuale, il torpore di quelle popolazioni
    buone e semplici dall'animo riboccante del più puro entusiasmo, dalle facce abbronzate e dal cuore e
    dai muscoli ben saldi per il diuturno lavoro.
    Quattro anni di fascismo al potere avevano – come vedete – già ottenuto un certo effetto; almeno
    sul tono e lo stile dei giornali. Ma era vero e sacrosanto che da tre lustri la XX Settembre – toccasse
    le campagne del Lazio e della Campania, degli Abruzzi o dell'Umbria – era diventata un folk game,
    un evento che nel centro-meridione attirava la gente fuori della sfera della routine quotidiana,
    amministrando gratuitamente svago e divertimento; e incitando, incanalando passioni che,
    altrimenti, avrebbero potuto trovare sbocchi pericolosi per l'establishment. Inoltre, la XX Settembre
    rimaneva legata al nome di Roma, capitale della nazione redenta dal sacrificio di sangue della
    guerra mondiale. Era la classica ciclistica più antica, con la sua data di nascita del 1902, e riponeva
    in questa caratteristica molto del suo prestigio, pur disertata dai campioni francesi e belgi. (E'
    ipotizzabile che su tali diserzioni influissero accordi speciali tra le case industriali del nord Italia e
    le consorelle d'oltr'Alpe). La novità dei traguardi a premi invitò all'avventura nel 1922 un
    poverissimo routier friulano che tentava la via del professionismo: Ottavio Bottecchia. L'eroe
    contadino che due anni dopo sarebbe stato il primo italiano a trionfare al Tour de France, e poi
    avrebbe fatto il bis, avanti di morire in un oscuro incidente d'allenamento. Da un'autobiografia di
    Giuliana Fantuz, le note su Bottecchia alla XX Settembre del '22:
    […] Durante quella corsa, la sfortuna gli si accanì contro proprio mentre era nel gruppo di testa.
    Cadendo, rischiò la vita per l'ennesima volta,, ma ruppe solo una ruota e riuscì ad arrivare comunque
    ottavo, dimostrando ancora le sue grandi qualità. In un servizio per «Il Mezzogiorno» del 9 luglio
    1923, Felice Scandone scrisse: Seguivo l'anno scorso la “XX Settembre”. Il gruppo dopo i primi cento
    chilometri era ancora folto: la gara languiva e proprio sul culmine della salita di Atina v'era un
    traguardo. A 50 metri, ove la salita era più aspra, una maglia verde si alzava sui pedali e staccava
    vincendo. Noi giornalisti al seguito, svogliati e annoiati dal tran tran monotono, concordi
    scrivevamo: “Ecco il traguardo di Atina. E' in cima a una lunga salita; nessuno s'impegna e
    Bottecchia, un oscuro junior di Pordenone, vice facilmente”. Venne poi la fase movimentata in
    seguito a una foratura di Girardengo. Bottecchia, sull'infernale strada di Formia, andò in un fosso,
    spezzò una ruota e scomparve. E così il primo formidabile scatto in salita di quello che doveva poi
    diventare uno dei più grandi grimpeurs del mondo non fu compreso. Nel 1947, a vent'anni dalla
    morte di Bottecchia, «La Gazzetta dello Sport» pubblicò un articolo di Giuseppe Ambrosini che
    ricordava: Lo conobbi alla punzonatura della “XX Settembre” del 1922, ch'era da poco passato
    professionista. Nei sotterranei della “Forza e Coraggio Macao” s'aggirava, immusonito e taciturno,
    una specie di cornacchione spelacchiato, un povero diavolo che pareva il ritratto della miseria e della
    fame, tanto malandati erano i suoi vestiti, rugosa la fronte, scarnito il volto in cui di fra gli occhi
    infossati partiva a sprone il naso affilato che dominava la bocca asciutta, prominente e chiusa tra la
    parentesi di due enormi rughe. Era quasi timido, il giovanotto, e dovetti tirargli fuori ad una ad una
    le poche parole con le quali, insistendo, venni a sapere come aveva guadagnato quel distintivo al
    valore scolorito che portava all'occhiello. Pareva che gli seccasse di parlare di quello che aveva fatto
    in guerra, e ne parlava come della cosa più semplice e naturale di questo mondo. Da quel momento
    cominciai a voler bene a Bottecchia, anche se non sapevo e non m'immaginavo quello che sarebbe
    stato come atleta […] Chiuso l'omaggio a Botescià, torniamo al periodo dei duelli tra il giovane Binda e il vecchio
    Girardengo. Il problema – grosso e apparentemente insolubile problema – della ventiduesima
    edizione 1926 stava nel fatto che «il campionissimo» non poteva prendervi parte; vittima di una
    caduta in una precedente gara, avrebbe dovuto limitarsi ad assistere alla vittoria del suo antagonista
    Binda. Ma chi era Binda? Alfredo Binda, «il Cittigliese», appariva agli occhi dei tifosi poco eroico,
    con la sua faccia da impiegato delle tasse, e piuttosto un freddo calcolatore (teneva il diploma di
    ragioniere); al contrario di Gira, che era minimo e simpatico, impetuoso e scaltro, ed apparteneva
    all'epoca scapigliata dei routiers. Accadde, così, che la Forza e Coraggio Macao venisse subissata
    da telegrammi, lettere e telefonate da tutta Italia, da parte di società sportive e singoli sportivi, un
    mucchio di parole dal tono disperato e tese ad impetrare il rinvio della corsa. La FCM interpellò
    l'UVI, e questa rispose che un certo articolo del suo statuto vietava il rinvio per una simile
    condizione. La disperazione dei girardenghiani raggiunse l'acme. Giusto alla vigilia della corsa, un
    ordine dall'alto risolse il busillis. Lo sbrigò all'italiana. Da Il Messaggero del 19 settembre 1926:
    La Forza e Coraggio Macao aveva, come prescritto da un recente decreto, chiesto l'autorizzazione di
    effettuare la XX Settembre sul noto percorso ed attendeva l'autorizzazione da parte dell'autorità di P.S.
    Senonché la corsa stessa veniva ad incontrare a Fiuggi il Circuito Automobilistico del Lazio e Sabina,
    organizzato dalla Federazione sportiva fascista; quindi per tale fatto potevano nascere incresciosi
    incidenti, ad evitare i quali e dando la precedenza alla gara automobilistica perché prima richiesta,
    l'autorità di P.S. ha negato senz'altro il permesso di effettuare la corsa. Tale provvedimento è stato
    immediatamente portato a conoscenza degli Enti interessati, ai sottocomitati ed a quanti si sono
    occupati della gara.
    La gara fu fissata alla domenica del 28 novembre, con partenza dai Cessati Spiriti e arrivo
    all'Ippodromo di Villa Glori, sito a nord della città. Destino volle che Binda vincesse tutte e tre le
    prove restanti, così che la XX Settembre servì solo a consacrarlo campione italiano. Girardengo
    neanche prese parte alla corsa. Binda giunse primo al traguardo percorrendo i 272 km in poco
    meno di dodici ore, gli finirono alle spalle Domenico Piemontesi e Brunero. Se la prese comoda
    perché l'anno dopo, al circuito mondiale di Adenau, chiuse vincitore alla media di 32 kmh, facendo
    gridare al miracolo. Era iniziato il suo impero, con Giri d'Italia vinti a ripetizione e una serie di
    primati sull'ora e maglie iridate. In Italia stufò al punto tale che nel 1930 lo pagarono per rinunciare
    al Giro. La sua liaison vittoriosa con la XX Settembre s'interruppe al 1926, in quanto la corsa
    rientrò tra le prove valide per la maglia tricolore solo nel 1927 e nel 1929, e in entrambe le
    occasioni Binda preferì evitare le lunghe tirate prossime ai 500 km. Immaginata con tragitti
    articolati in maniera da soddisfare le regioni centrali, e soprattutto restituita al suo ruolo di gran
    fondo, la XX Settembre fu vinta da corridori di livello minore. Nel 1927 se l'aggiudicò Giuseppe
    Pancera, un veronese che nella sua carriera potrà vantare ben poco. Nel 1928 venne sostituita tra le
    prove tricolori dalla Forlì-Roma, coniata in omaggio al duce. Ebbe un parterre scarso e fu vinta da
    Antonio Negrini, venticinquenne alessandrino nel cui palmares brillava la presenza ai Giochi
    Olimpici di Parigi 1924. Il venti settembre Augusto Turati, capo dell'Opera Nazionale Dopolavoro,
    mise in scena un raduno di iscritti alla Federazione Italiana Escursionisti: marcia di staffette
    ciclistiche verso la capitale a rappresentare le novantaquattro provincie del paese.
    Nel 1929 ritornò nel novero delle prove valide per la maglia di campione d'Italia e recuperò il
    percorso classico Roma-Napoli-Roma. Vi parteciparono una cinquantina di corridori, la metà della
    Capitale, una decina del nord e i restanti del meridione; tra i nordisti anche Alfredo Binda, assieme
    al fratello Albino. In palio la targa de Il Messaggero e una medaglia d'oro offerta dal duce. La
    particolarità di quella edizione fu che i concorrenti si radunarono al tramonto al Palazzo del Freddo
    in via Principe Eugenio, rinomata gelateria ancora oggi esistente nel quartiere Esquilino: unica
    vestigia commerciale della Roma umbertina in mezzo a una miriade di negozietti cinesi. Giovanni
    Fassi, vicepresidente del comitato organizzatore presieduto dal barone Edgardo Lazzaroni,
    ricordandosi di essere stato egli stesso ottimo velocipedista e partecipante alle prime edizioni,
    offerse un mega-rinfresco; la cosa generò un bel po' di confusione, rendendo difficile ai
    metropolitani la regolazione del traffico adiacente. Poi i corridori s'incolonnarono verso Porta S.
    Giovanni e il capo del CONI, il gerarca Augusto Turati, si esibì in un discorso di tono patriottico.
    Nel suo snodarsi lungo l'Appia, la Casilina e la Tiburtina la corsa toccò trentadue comuni, con firma
    obbligatoria a Capua, Napoli, Cassino e Palestrina. Il programma prevedeva un tragitto di 485
    chilometri e cento metri, con partenza nella notte ai Cessati Spiriti e arrivo al Cinodromo della
    Rondinella, impianto da poco tirato su accanto allo Stadio del Partito Nazionale Fascista. (Lo stadio
    del 1911 aveva perso la pista dopo una ristrutturazione completata nel 1927, e contemporaneamente
    era stato riadattato l'Appio per consentire le riunioni dei pistards). Si videro le scene di folle
    allineate lungo la strada principale nei paesi illuminati a festa, presenti le autorità del luogo; scene
    simili a quelle che accompagnavano la Mille Miglia automobilistica. Si trattava, come al solito, di
    un “tutti contro Binda” ma, poco dopo Itri, sulla salita di Cascano, Binda si ritirò. Il cronista de Il
    Messaggero parlò di «incomprensibile abbandono», eppure la realtà era chiara: il ragioniere non
    aveva avversari per la maglia tricolore e non reputava di sudare più di tanto in una gara che, pur
    presentata di velina come «la classica delle classiche», non veniva frequentata dagli stranieri e
    rimaneva in secondo piano nel panorama internazionale. Privata di Binda, la gara rullò via
    monotona. Un temporale sorprese i corridori nel tratto finale, per cui il commissario dell'UVI decise
    d'annullare l'arrivo alla Rondinella e l'improvvisò sulla Tiburtina, al chilometro 470 in un rettilineo
    all'altezza della borgata di Settecamini. La volata si svolse poco dopo le quattro del pomeriggio del
    20 e fu vinta dal milanese, di Pizzighettone, Gaetano Belloni, un veterano che dodici anni prima
    sorrideva dalle copertine de Lo Sport Illustrato con un cappello piumato da bersagliere. Dobbiamo
    dire che per Belloni fu una rivincita del destino perché, nel 1921, in un arrivo di una tappa del Giro
    sulla pista in terra della Rondinella, un tizio pagato dagli avversari gli aveva tagliato la strada
    facendolo cadere, e quel Giro d'Italia, speciale perché Gira s'era ritirato, il milanese l'aveva poi
    perso per soli 43 secondi! Quindi i sopravvissuti alla corsa, sempre massacrante per via della tirata
    unica di diciotto ore abbondanti, proseguirono fino alla Rondinella, dove nel frattempo la folla
    aveva ingannato l'attesa assistendo ad un match di calcio tra la Lazio e la Triestina. Il Messaggero
    presentò l'epilogo come «la vittoria dell'anziano Belloni su un gruppo di giovani avversari», e pare
    che il «vecio Tano» non stesse più nella pelle per il successo cercato invano quando le forze le
    aveva più fresche.
    Ma il ritiro snobistico di Binda fece male al prestigio della XX Settembre. L'anno dopo non fu
    inserita tra le prove tricolori, sostituita dalla Predappio-Roma vinta dal nuovo campione che ora
    insidiava Binda: Learco Guerra. La ventiseiesima edizione del 1930, nonostante gli sforzi degli
    organizzatori Nino Ilari, Giulio Bartoli e Alfredo Giacobini, passò così sottotraccia. Assenti Binda
    e Guerra, si risolse in una «turistica del XX Settembre ». «Bella vittoria in una brutta corsa» –
    commentò Pierluigi Tagiuri sul quotidiano sportivo romano Il Littoriale. La bella vittoria fu di
    Michele Mara, un classe 1903 di Busto Arsizio, buon passista e finisseur, che in quella stagione
    aveva sorprendentemente vinto la Milano-Sanremo e cinque tappe al Giro d'Italia. Davanti alle
    difficoltà della Forza e Coraggio Macao, con l'ombra della Predappio-Roma che si svolgeva a
    settembre e presentava lo stesso chilometraggio (480 km), l'UVI disse basta e per tre anni la corsa
    non venne effettuata. Anche il Concordato tra Mussolini e il papa certamente contribuì allo stop,
    seppure non esistano prove che dopo la firma vi sia stata una precisa richiesta del Vaticano al
    riguardo.
    Risorse nel 1934, passando di organizzazione alla Federazione Ciclistica Italiana; per darle peso, fu
    inserita tra le sette prove valide per il campionato assoluto su strada. La seconda ristrutturazione del
    Velodromo Appio, avvenuta nel 1933-34, con le tribune e l'anello della pista tirati su in cemento per
    volere della Federciclismo guidata dall'ex pistard Federico Momo, aveva fatto da traino al recupero.
    La riesumazione della Roma-Napoli-Roma s'inserì, dunque, in questo rilancio del ciclismo
    capitolino. In più, c'era il dato di Napoli, che con 12 bici per ogni 1000 abitanti, era una delle città
    con la minore diffusione, a fronte ad esempio di Milano che arrivava a 236. Per la Penisola
    circolavano quasi 5 milioni di biciclette, mentre tre lustri prima esse erano state meno della metà.
    La densità sul territorio nazionale era di una bici per ogni otto abitanti; eppure si stava indietro
    rispetto alle altre grandi nazioni europee: per dire, la Francia e la Gran Bretagna avevano dieci
    milioni di bici in circolazione e la Germania addirittura venti. Grazie all'azione dell'OND, erano
    comunque in costante aumento i cicloturisti e gli agonisti provenienti dalle sezioni del dopolavoro.
    Sportivi che preparavano le gare magari aiutandosi con prodotti comprati in farmacia: i più diffusi
    erano il Peptocola e il Colastier, un liquido e uno zucchero che si mescolavano nella borraccia.
    «E' la corsa classica per eccellenza, ha un fascino del tutto particolare, è la gara degli assi giacché il
    suo libro d'oro reca i nomi di quelli che hanno irradiato della loro classe inconfondibile il ciclismo
    internazionale…. perla fulgidissima, rara, per cui qualsiasi classificazione rimane impossibile» –
    scrisse Il Messaggero a mo' di presentazione. Giornale che continuava a patrocinare la corsa con la
    collaborazione de Il Mezzogiorno Sportivo di Napoli. Per «deferenza alla FCI» e «in maniera
    totalitaria» si iscrissero tutti i migliori, compreso Guerra. “La locomotiva umana” avrebbe potuto
    anche passare la mano, perché la sua maglia tricolore non era in pericolo. Ma preferì non mancare
    ad un appuntamento che le attenzioni palesate dalla Federazione rendeva immancabile. L'Italia “in
    piedi” di Mussolini stava iniziando la campagna in Africa Orientale ed entrando nel periodo
    autarchico; ci si stava rimettendo l'elmetto e Guerra, nomen omen, non poteva sottrarsi a nessun
    comando. La gara, diretta da Dario Beni, fu rispettata nelle sue tradizioni in tutto meno che nella
    data, spostata alla domenica del 9 settembre. Le medie dei corridori, innalzatesi in tre decadi dai
    venti ai trenta all'ora, il miglioramento delle consolari Casilina e Appia, a larghi tratti asfaltate,
    concedevano la tirata unica con partenza notturna a Centocelle, arrivo a Napoli al mattino e ritorno
    la sera nel catino del Motovelodromo. Il ritrovo e la punzonatura ebbero luogo ancora a piazza
    Vittorio e al Palazzo del Freddo, e alle una antimeridiane, al via dato dal segretario federale
    dell'Urbe, partirono in cinquantuno, per un record di partecipazione che non sarà più superato.
    Guerra, spalleggiato dai compagni di squadra della Maino, frazionò il gruppo sotto la sua spinta
    possente. Il velodromo dell'Arenaccia venne raggiunto a una media di 34 kmh. Nel ritorno lungo
    l'Appia la fatica abbassò l'eccezionale andatura, e i romani poterono entusiasmarsi per la rimonta
    sul gruppo di testa di Umberto Guarducci, portacolori della giallorossa AS Roma. Guerra affrontò le
    salite di Velletri e Genzano insieme ad altri cinque corridori – Bergamaschi, Piubellini, Balli,
    Guarducci e Clerici – disponendo dell'aiuto del conterraneo Vasco Bergamaschi e avendo contro
    quelli della Legnano, Bianchi e Frejus. Passò sempre primo fra due ali di folla (duecentomila gli
    spettatori stimati solo tra Velletri e Roma) che incitavano lui, il vincitore del Giro d'Italia nonché
    vice-campione del mondo, e speravano in un miracolo di Guarducci. La volata all'Appio nella
    cronaca de Il Messaggero:
    Nel primo giro conduce Bergamaschi alla cui ruota sono Guerra e Guarducci; alla campana
    Bergamaschi allunga poi alla prima curva, Guerra assume il comando trascinandosi Guarducci, che
    difende con tutte le forze la seconda posizione. La vittoria di Guerra non è difficile, ma quello che più
    entusiasma il pubblico di romano è l'affermazione del piccolo atleta della A.S. Roma.
    Il mantovano chiuse i 261 km del percorso in poco più di quindici ore, alla media di 30,537 kmh.
    Mise la sua firma su un albo d'oro illustre, accompagnandola a quelle di Pavesi, Galetti, Gerbi,
    Beni, Girardengo e Binda. Nel 1935 la XX Settembre non venne inclusa nel campionato tricolore,
    articolato in nove prove. Fu praticamente sostituita in calendario dal Giro delle Due Provincie sulle
    strade di Messina. L'era delle gran fondo appariva definitivamente tramontata. Gli “stradisti”
    viaggiavano a medie elevate e s'impegnavano solo in una delle due frazioni, se si trattava di blocchi
    di oltre duecento chilometri. La gara più lunga delle nove del 1935 fu il Giro di Toscana di 303 km.
    Inoltre, ritornare a una prova ridotta, che escludeva Napoli, non aveva molto senso. Peccato che la
    classica romana non sopravvisse ancora una stagione. Probabilmente avrebbe visto protagonista il
    campione del futuro, Gino Bartali, che proprio nel 1935 vestì la maglia di campione d'Italia.
    Il Gran Premio Ciclomotoristico delle Nazioni (1950-1961)
    Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, la voglia di motorizzazione degli italiani cavalcò
    lo scooter e il motociclo. Prima la Vespa, geniale trovata della Piaggio, poi la Lambretta, prodotto
    della casa Innocenti. Si videro a bordo di «motorini con le ruote grandi come forme di formaggio
    pecorino» (la definizione è di Ernest Hemigway) madri di famiglia, vecchi contadini e giovani
    sacerdoti. Lo scooter, con la sua rivoluzionaria struttura portante d'ispirazione automobilistica,
    mezzo pratico e cittadino, allargò a dismisura il bacino d'utenza delle due ruote. Nei primi anni
    cinquanta, Leo Longanesi sintetizzava i pregi terreni e le metafisiche virtù dello scooter con una
    pubblicità della lambretta in cui si vedevano marito e moglie, molto dignitosi, fluttuare a mezz'aria;
    la didascalia diceva: «E' così leggera che è come se non ci fosse». Nel 1949 nacquero i Vespa Club
    e dieci anni dopo ve ne erano 232 sparsi per l'Italia, e oltre 60.000 i soci. Le disponibilità finanziarie
    permisero alla Piaggio di svolgere un'attività turistica su scala nazionale ed internazionale che attirò
    immediatamente l'interesse degli utenti. I giovani e i neofiti di motorizzazione chiedevano di essere
    accompagnati a divertirsi, sempre più lontano, sempre in luoghi nuovi, sempre in comitiva.
    Riprendendo una linea che era stata fatta propria durante il regime dall'associazionismo turisticosportivo
    dell'Opera Nazionale Dopolavoro, rampollarono, accanto alle attività di puro svago
    (raduni, gite), altre con intenti più agonistici: gymkane, gare di regolarità, Audax e Giri
    interregionali. Anche il Gruppo Innocenti, produttore dal 1947 della Lambretta – uno scooter a due
    tempi funzionante a miscela di benzina e olio, a tre o quattro marce, elaborato dagli ingegneri
    Pierluigi Torre e Cesare Pallavicino – istituì i suoi club e nacque, tra “vespisti” e “lambrettisti”,
    una fiera rivalità su quale dei due scooter fosse il migliore. Nel 1956 dagli stabilimenti di Pontedera
    uscì la decimilionesima Vespa, esportata in più di cento paesi nel mondo, con imitazioni in URSS e
    in Giappone. Nel 1959 una famiglia media del “triangolo industriale” non possedeva ancora il
    televisore ma ascoltava la radio, versava le tremila lire di canone e pagava le cinquemila lire per il
    bollo di circolazione dello scooter; quaranta anni prima, aveva pagato le dieci lire della tassa annua
    della bicicletta. Ai Giochi Olimpici di Roma '60, gli americani si meravigliarono nel vedere che il
    grosso del traffico della città era costituito da minuscoli scooter, e non da lunghe auto come nelle
    loro metropoli. Possiamo dunque dire che, per una quindicina d'anni, fino al boom della “utilitaria”
    avvenuto nel decennio 1960-70 (da un milione salirono a dieci milioni le auto circolanti), lo scooter
    prese in Italia il posto della bici come mezzo di spostamento per il lavoro e il tempo libero. Le
    cifre? Nel 1961 giravano 1.030.000 ciclomotori, 1.800.000 scooter da 51cc a 125cc, 874.000 oltre i
    125cc. Eravamo diventati un popolo di scooteristi e ciclomotoristi.
    Il boom dello scooter non preoccupò più di tanto l'industria ciclistica, anch'essa in ascesa di vendite
    per via della povertà diffusa, che impediva l'acquisto dell'automobile e della motocicletta. Rispetto
    all'auto, alla moto e al tram, intorno alla metà degli anni cinquanta l'uso della bici stava in un
    rapporto uno a cinquanta, a trenta, a dieci. Lungi dal farsi la guerra, i due comparti arrivarono a un
    accordo di buona vicinanza che, sul piano dell'organizzazione di manifestazioni sportive, partorì un
    ibrido: la corsa ciclo-motoristica. Gare di corridori ciclisti sfruttanti la scia della motocicletta – gare
    dette stayers – se ne erano viste già durante la belle époque, partendo dalla Francia, ma si trattava di
    eventi su pista. La novità fu la prova su strada con la bici agganciata ad uno scooter tramite un rullo.
    E fu una invenzione tutta italiana. Se la mise nella zucca un giornalista campano, Natale Bertocco,
    che lavorava come organizzatore nel Centro Sportivo Italiano. Il CSI era un ente di propaganda
    sportiva che gravitava nell'area area democristiana, contava decine di migliaia di giovani soci nel
    Paese e faceva sport a 360 gradi. Oltre a frequentare via della Conciliazione a Roma, sede centrale
    del CSI, il dottor Bertocco scriveva su Il Tempo, allora diretto da Renato Angiolillo Nel 1949 aveva
    appena pubblicato un volume sull'attività juniores del CSI, e un altro libro stava preparando sullo
    sport italiano in generale: una sorta di manuale del perfetto organizzatore di manifestazioni sportive.
    Al fine di agganciare in qualche modo il giornale che lo stipendiava al Giro d'Italia, che al volgere
    degli anni quaranta stava vivendo un irripetibile splendore per via della lotta tra Bartali e Coppi,
    Bertocco lanciò un concorso “Tempo-Innocenti”, riscuotendo favore fra gli inviati speciali dei
    giornali al seguito della corsa a tappe. A quel punto, un dirigente della Innocenti, l'ingegner Lauro,
    entusiasmato dal buon esito del concorso gli chiese di escogitare una formula pubblicitaria che
    fungesse da traino alla nuova “Lambretta C 125 ”, modello che s'avvicinava alla Vespa in virtù
    della carrozzeria chiusa, cioè carenata. Nel 1959, in un'intervista rilasciata a Enzo Balboni del
    Corriere dello Sport, Bertocco così rievocò la genesi del connubio tra scooter e bici in una prova
    agonistica su strada:
    Pensai subito al ciclismo, perché il ciclismo è lo sport più popolare, più vicino alle folle di tutte le
    strade e perché è lo sport che più ho nel cuore. Ciclismo e motoscooter, non vi era che da trovare una
    formula giusta, quella del successo. La trovai subito: non una copia della Bordeaux-Parigi, che è corsa
    sui generis, una gara di gran fondo più che una competizione veloce, ove i derny hanno il valore di
    allenatori più per far riposare i concorrenti che per impegnarli in grosse rincorse, (la Bordeaux-Parigi
    utilizzava in alcuni suoi tratti bici a motore chiamate derny, molto leggere e che non erano né moto
    stayer né scooter, ndA) ma qualcosa di più suggestivo e pratico, qualcosa che unisse uomini e motori,
    e che potesse portare il ciclismo in casa degli sportivi. Così venne l'idea dell'abbinamento e dei
    circuiti. Del resto, è una mia vecchia idea quella degli abbinamenti, sia prova di ciò il fatto che un
    tempo organizzai la Coppa Piacitelli per indipendenti e dilettanti senior sulla Anzio-Roma, una gara a
    cronometro a coppie che prevedeva alcune prove supplementari sulla pista del Velodromo Appio. Da
    quella corsa venne poi l'idea a Baracchi di fare il suo Trofeo…
    Bertocco era napoletano e viveva a Roma. Aveva bisogno di una manifestazione sportiva che
    reclamizzasse la Lambretta nel Mezzogiorno, sempre arretrato rispetto al nord in fatto di diffusione
    di moderni mezzi di locomozione, e la reclamizzasse come faceva la Gazzetta dello Sport col suo
    Giro, portando i campioni-testimonial davanti la casa dei clienti-tifosi. C'era la vecchia “Roma-
    Napoli-Roma” a disposizione, ossia la XX Settembre, che Bertocco aveva visto passare quand'era
    ragazzo, corsa da tempo defunta ma ancora ricordata da molti. Fu logico per lui fare due più due e
    rimettere in piedi l'organizzazione della classicissima del centro-sud, deformandola in una maniera
    fantasiosa e originale; perché era ovvio che nessun corridore avrebbe più accettato di partire
    nottetempo per filarsi 500 km su strade non asfaltate. La sua formula fu la seguente: calendario a
    fine aprile, poco avanti il Giro e resa libera da qualsiasi richiamo patriottico (ce n'era già stato
    abbastanza sotto il fascismo, di patriottismo). Due concorrenti in gara e due mezzi a disposizione –
    l'allenatore e il corridore, lo scooter e la bici – ma un solo uomo acclamato dalle folle: il campione
    ciclista; e un mezzo in special modo esaltato nei resoconti e nella pubblicità della corsa: lo scooter.
    Una gara non a tirata unica come ai tempi in cui Berta filava, non spezzata in due lunghe giornate
    con le partenze di notte o all'alba; piuttosto, frazionata in tante brevi prove in linea e a cronometro,
    inframezzate da tratti volanti dietro motori, nei luoghi dove le strade si presentavano perfettamente
    lisce d'asfalto, e con gli arrivi ospitati nei circuiti stradali cittadini; così che la la gente potesse
    ingannare l'attesa assistendo a esibizioni di locali ciclisti dilettanti, allo stesso tempo venendo
    bombardata dall'apparato pubblicitario delle case che sponsorizzavano la manifestazione intera.
    Case che aiutavano nel supporto logistico e fornivano i premi per i corridori.
    Queste caratteristiche resero la Roma-Napoli-Roma – ridenominata Gran Premio Ciclomotoristico
    delle Nazioni – adatta ai passisti e ai pistard. E siccome quasi tutti i divi pedalatori dell'epoca, oltre
    che scalatori erano superbi regolaristi e sapevano sbrigarsela in pista (escluso Gino Bartali), la
    genialata ulteriore di Bertocco fu la seguente: limitiamo l'iscrizione ai soli campioni, priviamoli
    dell'aiuto dei gregari, mettiamoli praticamente nudi l'uno di fronte all'altro, valutiamo il loro
    coraggio con l'aggancio “al volo” dietro il rullo, a rischio di cadere (capiterà subito a Bartali),
    testiamo le reali capacità tattiche personali, senza il gioco di squadra dei luogotenenti e le carovane
    sonnolente di trasferimento ad allungare il brodo, spremiamoli come limoni in due e più giorni (la
    dilatazione della corsa ad altre città essendo insita nel genotipo), facendoli trascorrere in velocità da
    un esercizio all'altro, con brevi pause tanto per stirare un attimo le gambe su un letto d'albergo, e
    vediamo un po' alla fine cosa ne sorte. Sulla risposta della gente, Bertocco era tranquillo: a sud di
    Roma si era affamati di grande ciclismo, non c'era ancora la televisione e la radio stuzzicava
    l'appetito ma non saziava. Tutto stava a vedere come avrebbero reagito le star alla prima uscita
    sperimentale nel 1950. Pagate bene, reagirono bene. Era l'Anno Santo. Il “Ciclomotoristico”,
    inventato da un organizzatore sportivo legato ad ambienti vicini al Vaticano, nasceva sotto i
    migliori auspici.
    Il 20 e il 21 aprile furono le date scelte per la ventottesima edizione della Roma-Napoli-Roma / XX
    Settembre. (In realtà, nessuna delle due titolazioni si attaglia al GP Ciclomotoristico delle Nazioni,
    manifestazione da subito slegata dalla rievocazione della presa di Roma e in seguito proiettata su
    altre città meridionali). Si trattava di un giovedì e di un venerdì, e l'arrivo a Roma nel giorno dei
    nataleìi dell'Urbs Aeterna voleva pure dire qualcosa: con quella data si ricordava al popolo che,
    prima degli azzurri savoiardi e dei rossi garibaldini, c'era stata una storia bimillenaria che aveva
    avuto la Chiesa come protagonista. Anche il passaggio del patrocinio da Il Messaggero a Il Tempo
    era un portato del nuovo corso politico e sociale: da un giornale per tradizione spinoso verso i preti
    a un altro, viceversa, compiacente con gli stessi. E questo in un clima generale, non
    dimentichiamolo, quanto mai turbolento, stante le forti pretese della sinistra in un Paese da
    ricostruire dopo una guerra perduta in alleanza col diavolo. Il leader democristiano Alcide De
    Gasperi, capo del governo, mise in palio una coppa d'argento a nome della Presidenza del Consiglio
    dei Ministri, e altri trofei furono donati dal Ministero dell'Industria e del Lavoro, da Il Tempo e dal
    presidente del CONI, Giulio Onesti. Ma i partecipanti al Ciclomotoristico e le case che essi
    rappresentavano non correvano certo per quei premi, come il Grammel di buona memoria (il
    vecchio tedesco fu comunque scovato da Bertocco nella sua impresa di pulitura di tappeti sulla
    Cassia e invitato, inseme ad altri pionieri tra cui Spadoni e Fassi, a presenziare alla partenza al
    Velodromo). Grazie ai quattrini della Innocenti e degli altri due sponsor (Chinotto Neri e Lametta
    Tre Teste), si convinsero alcune delle maggiori équipes ad iscrivere alla prova i loro capitani. Sui
    giornali rimbalzarono i nomi di Coppi, Bartali, Magni, Leoni, Bevilacqua, Bobet, Robic, Van
    Steenberger, Schotte, Ortelli, Martini, Maggini, Ricci e i due beniamini degli appassionati romani:
    Aldo Beni e il biancazzurro Pontisso. In particolare, c'erano gli attuali «quattro moschettieri» del
    ciclismo mondiale: Fausto Coppi, iscritto insieme al fratello Serse, Gino Bartali, recente vincitore
    della Miano-Sanremo, il campione del mondo in carica Ric Van Steenbergen, un fiammingo che
    l'anno prima aveva bruciato Coppi sul circuito di Copenhagen, e il campione di Francia Louison
    Bobet, il fuoriclasse bretone che sapeva calcolare tutto per vincere. All'appello mancavano gli
    svizzeri Hugo Koblet e Ferdi Kubler, prossimi trionfatori al Giro e al Tour.
    Il pomeriggio del 18 aprile, a piazza Colonna, si effettuò l'abbinamento a sorteggio delle lambrette e
    degli allenatori. Coppi, il divo più amato, si recò nella vicina sede de Il Tempo per apporre il suo
    autografo sulla prima copia di un numero speciale dedicato alla corsa. Insieme ad Angiolillo, lo
    attendevano l'organizzatore Bertocco, il direttore della corsa Vittorio Spositi e il commissario UVI
    Elio Rimedio. Il giorno dopo, a mezzogiorno, Coppi, Bartali e gli altri campioni d'osservanza
    cattolica furono ricevuti in udienza da papa Pio XII. Il pontefice si fece fotografare con i corridori,
    sorridente. Il 20 alle sette del mattino, da Centocelle e avendo a cornice una notevole folla, partì la
    prima prova, la Roma-Frosinone; se l'aggiudicò, a una media superiore ai 52 kmh, Jean Robic, il
    francese capofila della Viscontea e campione iridato di ciclo-campestre. Robic era noto ai tifosi col
    soprannome di “testa di vetro”, perché gareggiava con una calotta di vetro infrangibile che gli era
    stata applicata nel cranio dopo un capitombolo. Alle spalle dell'intemerato Robic si piazzarono
    Coppi, Van Steenbergen e Bobet. Un tratto del “primo settore” fu percorso dietro motori. L'inviato
    de Il Tempo, Guglielmo Peirce, così descrisse l'esperienza:
    Incollati dietro le Lambrette, che volano in certi tratti a 60-70 chilometri l'ora, in macchina per potere
    superare qualcuno bisogna andare a 100 chilometri l'ora. Da Roma a Frosinone abbiamo viaggiato
    come palle di fucile.
    Il “secondo settore”, da Frosinone a Napoli, si concluse con la vittoria di Coppi, che percorse i 153
    km in poco meno di quattro ore e venti minuti, applaudito al Velodromo dell'Arenaccia da una folla
    entusiasta. Il 21 aprile, i 28 corridori alle sette del mattino iniziarono il “terzo settore”, da Napoli a
    Latina, con una frazione in linea fino a Terracina e l'aggancio volante ai rulli. Per la prima volta in
    Italia si assistette a un arrivo dietro motori di una corsa ciclistica dentro una città. Coppi vinse la
    Napoli-Latina di 171 km nel tempo complessivo di 4.44'42”, conquistando la maglia giallorossa di
    leader della classifica davanti a Robic per un solo secondo di differenza. Prima di fare il “quarto
    settore”, destinazione Roma, ci fu una sosta di tre ore. Bertocco andò dal campionissimo in albergo
    per consegnargli la maglia di capo-classifica. Lo trovò esausto, sotto le coperte e col naso che
    spuntava, enorme, dalle lenzuola. Al “come stai?” di prammatica, l'Airone rispose con un
    semplice: “Che fatica!”. Era accaduto che i tragitti dietro motore, non lunghi ma tirati al massimo,
    stavano fiaccando oltre misura le energie dei corridori, tanto che a fine gara anche altri, in specie i
    francesi della Girard, avrebbero confessato di non avere mai disputato in carriera una corsa tanto
    dura. Nel primo pomeriggio del 21 aprile, da Terracina i partecipanti, divisi in gruppi di cinque
    seguendo l'ordine di classifica, partirono per la prova finale. I primi furono Coppi, Robic, Van
    Steenbergen, Bobet e il pratese Nedo Logli, anch'egli della Viscontea e già in luce nell'ultima
    Milano-Sanremo. Nel secondo gruppo c'era Bartali, messo tra i favoriti della vigilia. Ma il
    fiorentino di Ponte a Ema, appena avviata, con spinta possente, la rimonta, cadde e si ritirò.
    Eliminato Bartali, nessuno dubitava che Coppi potesse arrivare in volata con Robic all'Appio, e così
    impreziosire l'albo d'oro della Roma-Napoli-Roma. Accadde invece che, dalle parti di Velletri, al
    momento dell'aggancio ai rulli un cane traversò la lambretta guidata dall'allenatore Pippo Latini, e
    lo sbandamento che ne derivò fece perdere al capofila della Bianchi quei secondi preziosi che
    permisero a Robic, e al suo lambrettista Gentili, d'involarsi senza l'italiano nella scia. Nelle ultime
    fasi, lungo la via Casilina e avvicinandosi l'Urbe tra due ali di folla, si vide il piccolo bretone, con
    voce aspra e sibilata tra i denti gialli e radi, incitare l'allenatore ad aumentare la velocità.
    Grandissima fu la sorpresa dei ventimila dell'Appio all'entrata della maglia blu di Robic, in luogo di
    quella rossa di Coppi. “Testa di vetro” chiuse i 450 km nel tempo complessivo di 12 ore, 22 minuti
    e 51 secondi, precedendo Coppi di 8 secondi; terzo Bobet della équipe Guerra, quarto Van
    Steenbergen della Girard e quinto Logli. Venticinque gli arrivati sui ventotto partiti. Robic,
    aggiudicandosi il primo GP Ciclomotoristico delle Nazioni, aveva tenuto fede a una promessa fatta
    ai marinai della corazzata “Jean D'Arc” alla fonda nel porto di Napoli: «Batterò Fostò per l'onore della
    Francia!».
    La gara, ripresa dalla Olimpia Film, si rivelò un successo clamoroso. Gli inviati dei giornali belgi e
    francesi la lodarono senza riserve, e perfino la “Gazzetta” dovette ammettere la validità della
    formula, la sua novità. Critiche furono comunque mosse. Principalmente al fatto che la cilindrata
    delle lambrette, nei tratti in discesa, non consentiva ai corridori di alzare la velocità a quella che essi
    desideravano; e questo nonostante gli speciali rapporti studiati, l'alleggerimento delle bici e le
    gomme particolari usate. Inoltre, sembrava davvero troppo stressante il ritmo imposto, con le brevi
    soste tra un settore e l'altro e il pericolo di cadere rovinosamente negli agganci volanti ai rulli. Ma
    proprio questa durezza, queste difficoltà fantasiose resero immediatamente popolare la corsa, ne
    costituirono il marchio di fabbrica. E qualcuno s'arrischiò a dire che il binomio bici & scooter
    avrebbe rappresentato il prossimo futuro del ciclismo agonistico.
    La seconda edizione si corse il 14-15-16 aprile 1951, sulla distanza di 700 km. Assente Coppi,
    convalescente da seri guai fisici, si presentarono varie star: Bartali, Magni, Bevilacqua, Bobet,
    Robic, Kubler. In tutto trenta concorrenti e altrettanti allenatori. Bertocco sperava che stavolta
    toccasse a Bartali. Egli era un fervente ammiratore del terziario francescano che pedalava e, durante
    il Tour del '48, nella sfida sanguinosa con Coppi aveva scritto sul giornalino per ragazzi Il
    Vittorioso, senza un'ombra d'ironia:
    Dov'eri?, sfido io! Eri già in montagna tu, la tappa dopo, quando gli altri erano ancora in pianura. Eri
    in montagna a goderti il fresco, a disintossicarti di quelle brutte cose mondane viste in riviera, nella
    famosa costa azzurra, eri lassù a respirare la tua aria, l'aria delle alte vette, e per farti festa gli
    stambecchi e le aquile t'eran venuti incontro festosi.
    La formula restò quasi invariata, perché Bertocco pensò a ridurre il chilometraggio complessivo e
    ad aumentare i tratti dietro motori. Le tappe, divise nei tre giorni, furono le seguenti: Roma-
    Frosinone-Caserta, Caserta-Salerno-Napoli, Napoli-Latina-Roma. La partenza sempre da
    Centocelle, alle undici del mattino, e l'arrivo alla Passeggiata Archeologica alle Terme di Caracalla,
    per un “carosello” lambretta&ciclo che divertì moltissimo il pubblico. Vinse Ferdi Kubler, lo
    svizzero trentenne che in stagione si sarebbe aggiudicato il campionato del mondo su strada.
    Personaggio spesso presente nelle gare italiane, la sua vittoria davanti a Bartali e a Robic venne
    accettata di buon grado dalla folla capitolina, entusiasmata dalla tenacia di Gino Bartali e dall'ottima
    prova di Romano Pontisso. Kubler trionfò insieme a Latini, che si rifece così della sfortuna
    dell'anno avanti. Mario De Angelis, inviato de Il Corriere dello Sport, parlò di un «chiaro successo
    tecnico, agonistico e spettacolare della corsa ardita». Il suo collega Ennio Mantella, uno dei cronisti
    più quotati in Italia, disse che il ciclismo si avviava a «mettersi sottobraccio al motorismo», che gli
    organizzatori l'avevano «azzeccata in pieno» e si augurò che la formula venisse applicata a qualche
    tappa del Giro d'Italia. L'unica nota negativa riguardò l'eccessiva lunghezza di almeno uno dei tratti
    dietro ai rulli. Bertocco, trionfante, annunciò che nel 1952 la corsa si sarebbe svolta in quattro
    tappe, con l'innesto della Anacapri-Capri e il riposo nell'isola meravigliosa.
    In realtà questa novità non si concretizzò; ma un'altra, più importante, sì: la sostituzione della
    Lambretta con la Gilera. La casa di Arcore stava in crisi di vendite e intendeva rilanciarsi
    appoggiandosi al Ciclomotoristico. Fu scelta tra le molte richieste piovute a Bartocco dopo il suo
    annuncio che, terminata la fase sperimentale, la Roma-Napoli-Roma aveva bisogno di una moto
    leggera di cilindrata maggiore dello scooter. La Gilera mise a disposizione il modello “150 Sport”,
    un monocilindrico a quattro tempi sfiorante i 100 all'ora coi suoi 7,5 cavalli e i 5.800 giri al minuto.
    L'artificio della moto, meglio stabilizzata e in possesso di una ripresa efficace in salita, consentiva
    velocità più elevate ai corridori; in più, i tecnici della casa brianzola elaborarono un leggero e
    perfetto dispositivo d'aggancio, un “rullo” che piacque molto ai ciclisti. L'edizione così
    rivoluzionata rispose in pieno alle attese. Il direttore de Il Tempo, Angiolillo, la presentò egli stesso
    agli spettatori dei cinegiornali Incom, con l'Istituto Luce che entrava anch'esso in campo come
    sponsor e forniva il reportage giornalistico. Assente Coppi, impegnato al Giro di Romandia, Bartali
    provò per la terza volta a vincere la corsa, articolata in quattro giornate dal 17 al 20 aprile.
    Ginettaccio dominò nella seconda tappa, la Caserta-Salerno interamente in linea, ma perse nei tratti
    dietro la moto e nelle “australiana” su pista a Napoli, vinta da Robic, e in quella finale di 40 km (20
    giri) sul circuito di Caracalla. L'impresa di spezzare il dominio straniero – con l'insidia portata da
    Robic e dal belga Ockers – riuscì a Fiorenzo Magni, il campione che nella enfatica prosa
    giornalistica dell'epoca veniva definito «il terzo uomo». Il racconto di Giorgio Fattori, sulla rivista
    milanese Lo Sport, illumina gli aspetti tecnici originalissimi del Ciclomotoristico, che consentivano
    ai pesi mosca di soverchiare i muscolosi passisti:
    Tra Jean e Stan, i pigmei a motore, la «pelata» di Fiorenzo Magni si accende come un riflettore sotto il
    pazzo solleone dell'aprile romano, a dispetto di ogni pronostico della vigilia e di ogni meditata
    considerazione alla partenza dell'ultima tappa. Magni ha soffiato dal piatto degli stranieri quella
    vittoria che sarebbe stata la terza consecutiva in questa Roma-Napoli-Roma, curioso cocktail
    ciclomotoristico che sta aprendosi un cunicolo di passione nel cuore dei tifosi. Jean Robic e Stan
    Ockers dovevano essere quest'anno i becchini impassibili delle incerte speranze italiane, piccolissimi e
    acrobatici nei lunghi tratti dietro motore che risolvono questa corsa per chi ha la statura fisica e l'arte di
    kermesse per rattrappirsi, dietro la motocicletta e scapolare quindi il «vento di corsa» che è il
    maggiore ostacolo ai giganti tipo Magni e Van Steen. Per chilometri e chilometri il vento aveva
    cercato con astuta pazienza, con schiaffeggiante furia e ostinazione i due diabolici pigmei, senza
    trovarli mai alle tossicolose urlate dei motori, quando gli «agganciamenti», spettacolari e insidiosi,
    mutavano volto alla gara dandole la smorfia isterica di una kermesse dove i valori puri dei pedalatori
    venivano notevolmente sommersi. Jean e Stan, i carissimi nemici, erano sempre lì a dirigere la solfa di
    scatti e fughe, per una volta ancora, nelle speciali condizioni della corsa, alla ribalta degli assi. Eppure
    un gigante ha battuto i moscerini con le loro armi, nella loro diletta specialità, . Tre sono stati i tempi
    della vittoria di magni; e se i primi due (discesa folle da Dentecane, quando Bartali s'era scatenato, e
    poi liquidazione di Robic prima della «mezza tappa» di Latina riguardano le sue qualità di ciclista
    senza aggettivi e appendici, il terzo tempo è il più importante e significativo perché svoltosi dinanzi al
    nereggiante pubblico delle terme di Caracalla in quella decisiva «tornata» di motori. Jean e Stan,
    favoriti all'arrembaggio, sono stati zittiti senza riguardi dall'azione potente e freddissima di Fiorenzo.
    Riassumiamo di volo l'antefatto: Robic era sgusciato via nella frazione iniziale. Bartali aveva posto
    uno strepitoso interludio nella tappa «tutta bicicletta» di Salerno (dove Toni Bevilacqua per una
    distrazione storica si giocò la più placida delle vittorie) ancora Robic nei giri a cronometro
    dell'Arenaccia partenopea aveva dato sulla voce, da autentico specialista dei «motori», , ai pretendenti
    al suo primato. Poi venne la mezza tappa da Napoli a Latina, cotta dal solleone e con le prime sparute
    cicale che provavano intimidite le filastrocche d'agosto. A Terracina i motociclisti entrarono in scena
    per la clamorosa sarabanda del finale, poco prima Robic si fermò, non fu l'incidente meccanico e
    neppure la foratura, talvolta accade che il mal di pancia non risparmi neppure le auguste viscere dei
    leaders e Robic, zanzara di questa corsa che gli piace tanto, rifugiò in un cespuglio le malinconie di un
    dolorino e l'ansia di un primato ormai fuggente. Si «agganciò» alla sua Gilera in ritardo, mentre avanti
    i «grandi» imperversavano. A Latina arrivò staccato, furioso, indemoniato, trapassò Magni con una
    occhiata di fuoco e gli diede appuntamento all'ultimo carosello dei motori, a Caracalla; anche Ockers,
    vincitore della tappa, già stava pensando al finale. I terribili pigmei meditavano la crudele punizione
    all'inesperto gigante, che s'avventurava nel loro regno. Così maturò con meticoloso crescendo il
    «dramma» della corsa, bastò che alla curva di Caracalla Jean Robic intravedesse le moto già friggenti
    nell'ansia della gara, bastò quell'attimo fragoroso e confuso dell'agganciamento perché partisse
    disperato, senza voltarsi, sorprendendo Magni di colpo. I primi due giri del circuito videro dunque il
    vittorioso assalto del pigmeo di Francia ad un primato soffiatogli dal mal di pancia. Poi schizzò via
    Ockers, evoluendo in sapienti acrobazie ad ogni curva, rannicchiato come in una trincea dietro la sua
    motocicletta. Prese Robic, lo staccò a sua volta e Magni dietro, rabbiosamente. Sembrava la grande
    rivincita dei pigmei, inarrestabile. Ma Fiorenzo giro su giro si accaniva spietato sui pedali e a ogni
    curva cercava i guizzanti rivali. Non perse la testa, rifiutò il ritmo degli «specialisti» e impose a
    Pellizzari, suo pilota, la precisa cadenza delle sue volate. Senza l'impiccio di quelle motociclette,
    Fiorenzo avrebbe ingoiato i pigmei col suo sicuro allungo di passista senza confronti. Così fu più
    difficile, alla folla sembrò per molti minuti impossibile, ma poi fu un urlo solo quando Robic si
    ammosciò di schianto, ripreso e scaraventato da una parte da Fiorenzo, ipnotizzato ormai dalla ruota di
    Ockers. E un altro urlo più grande quando Ockers si girò indietro, così sfinito avvilito da non
    contrastargli neppure la volata al platonico traguardo finale.
    Bertocco, finita la gara, scherzò col quasi quarantenne Bartali, mettendogli a mo' di corona sul capo,
    protetto da un fazzoletto bianco annodato alla contadina, il suo imbuto da organizzatore. Gino
    rispose con una smorfia da combattente sconfitto: non contento del quarto posto, avrebbe ritentato
    un'ultima volta e poi, nel febbraio del '55, si sarebbe ritirato dalle scene agonistiche. La battaglia tra
    Magni – portacolori della équipe Ganna – Robic, Ockers, Bartali, Kubler, Koblet e Poblet –
    quest'ultimo uno scalatore spagnolo attirato dalla novità dei Gran Premi della Montagna – si ripeté
    nel 1953. L'esperto campione pratese sbaragliò ancora tutti e questa volta senza l'aiuto della buona
    sorte. Batté Ockers, che voleva fortemente la corsa, e tra i due s'inserì la sorpresa Bruno Monti, un
    giovanotto di Albano Laziale passato professionista da poco. La gara si articolò su cinque tappe, da
    mercoledì 22 aprile alla domenica del 26 aprile: ormai il carosello finale sul circuito stradale di
    Caracalla, con un'importante esposizione di sponsor, era diventato un pilone della manifestazione e
    ogni cosa veniva apparecchiata affinché cadesse in un giorno festivo. L'itinerario tornò a toccare,
    dopo molti anni, le cittadine di Terni e L'Aquila, subito nelle prime due giornate; così che l'Umbria
    e gli Abruzzi rientrarono nel panorama della classicissima del centromeridione. Decisivo fu il tratto
    sulla “fettuccia” di Terracina, che Magni compì a una media di 71 kmh. Monti vinse a Caracalla e la
    folla andò in visibilio. Alla partenza da Roma, la carovana multicolore delle bici e delle moto aveva
    sfilato per via del Corso al mattino, svegliando qualche dormiglione; e una rappresentanza dei
    ciclisti aveva deposto una corona di fiori all'Altare della Patria. Mantella scrisse che si era vista
    «una grandissima Roma-Napoli-Roma». Il suo collega Rizieri Grandi, capo dei servizi sportivi de Il
    Messaggero, scrivendo su un giornale del gruppo Rizzoli rilevò che la corsa risultava «sciatta» nei
    tratti in linea e s'animava soltanto in quelli dietro le moto.
    Essere uno specialista nell'aggancio e nell'utilizzo del cono di vento creato dalle motociclette era,
    innegabilmente, sempre più il requisito indispensabile per aggiudicarsela. Forse bisognava anche
    avere una cera fresca e malleabile, per diventare un vero specialista, se è vero che Monti, il
    giovanotto portacolori della Arbos del costruttore di bici Chiappini, nel 1954 beffò per nove
    secondi Coppi, tornato dentro con l'intento preciso di aggiungere il Ciclomotoristico al suo ricco
    curriculum. Le stupefacenti cavalcate del «campionissimo», filante a 58 di media nei tratti senza
    motori, non bastarono all'impresa. In una stagione sfortunata priva di vittorie importanti per lui, finì
    primo al circuito di Caracalla – soltanto altre sette corse avrebbe vinto di lì alla sua morte nel '60 – e
    secondo nella classifica finale. La gara comprese quattro giornate e 880 km.
    L'edizione del 1955, che ebbe in Coppi e in Koblet, “le pedaleur de charme”, i numeri di centro, si
    sviluppò verso sud, perdendo il sottotitolo di “Roma-Napoli-Roma”. Una glossa che non ci poteva
    stare in quanto le cinque giornate di gara, dal 27 aprile al primo maggio, fecero transitare la
    carovana dalla Capitale a Caserta, e giù a Benevento, Foggia e Bari, per risalire il “tacco” a Potenza
    e proseguire per Salerno, Napoli, Aprilia, Roma. Un totale di 1.016 km con molte tappe in linea,
    alcune delle quali spezzate dall'aggancio alle Gilera, e rumorose giostre turbinanti di centauri e
    ciclisti nei circuiti stradali cittadini. Il VI GP Ciclomotoristico delle Nazioni – vinto da Monti
    davanti a Nino Defilippis e a Coppi – venne definito dalla stampa nordista un «antipasto del Giro
    d'Italia», assolvendo, come scrisse Attilio Camoriano, «il suo compito che è, soprattutto, quello
    della propaganda nelle regioni del centro-Sud, con una corsa che porta la bandiera della
    spregiudicatezza e della modernità». Considerando che il Giro nello stesso anno si fermò a Scanno,
    negli Abruzzi, per risalire la Penisola senza farsi vedere nei luoghi della miseria diffusa, e che
    parimenti avrebbe operato nelle stagioni successive, fino all'edizione del Centenario dell'Unità
    d'Italia del 1961, andando sempre non più giù della Campania, possiamo invece affermare qualcosa
    di diverso: che la corsa a tappe inventata da Bertocco si era ormai affermata come un'alternativa
    valida a quella organizzata da Giuseppe Ambrosini, il direttore della “rosea”. E diciamo di più: che
    era una manifestazione sportiva di massa sentita propria dalle genti sudiste; una gara fantasiosa di
    carattere, resa speciale dal ritmo tarantellato e ruggente dei motori, studiata per loro, le folle del
    profondo sud, al contrario del nordico “Giro” che scientemente le emarginava.
    «La corsa più discussa del calendario internazionale» – secondo una definizione di Aldo Congiu su
    Il Calcio e il Ciclismo Illustrato – ritornò puntuale nel 1956. Poiché Bertocco era passato al settore
    organizzativo del Corriere dello Sport, la sua creazione passò parimenti sotto l'egida del giornale
    sportivo capitolino. Il quale stava diventando molto attivo nel meridione nell'allestimento di eventi
    sportivi a carattere giovanile e intendeva usare il Ciclomotoristico come fiore all'occhiello da
    opporre al Giro della “rosea”. Con la settima edizione si volle tornare all'antico, scegliendo un
    itinerario compreso tra Roma e Napoli e che toccava, in dieci semitappe, le cittadine di Perugia,
    Terni, L'Aquila, Fiuggi, Frosinone, Caserta, Latina. Circa 900 km in linea e 172 dietro motori. Si
    discuteva se bisognasse avere classe per vincere un Ciclomotoristico sempre più modellato a favore
    degli specialisti, anche se Coppi – proprio lui che era stato il re dell'inseguimento su pista – aveva
    detto che faticava di più in una tappa dolomitica che in un tratto dietro motori. La corsa si sviluppò
    dal 25 al 29 aprile ed ebbe la concorrenza della Vuelta, dove si erano spostati Bobet e Poblet. Gli
    italiani che avevano evitato il Giro di Spagna non si spremettero più di tanto per contrastare Stan
    Ockers. Il piccolo ciclista delle Ardenne, campione iridato in carica e primatista mondiale dietro
    serny, usò benissimo il talento del suo allenatore personale, Vanderboreck. Già nella prima giornata
    acciuffò la maglia giallorossa. Per due giorni la tenne dentro la valigia, indossando quella iridata. La
    esibì il sabato mattina a Fiuggi, entrò a Napoli lungo la via Caracciolo gremita di folla e surclassò
    tutti, compresi Magni, Monti, il lussemburghese Charly Gaul e l'altro belga Alfred De Bruyne, il
    maestro del pavé. A Caracalla il suo fu un carosello trionfale, con la solita folla delirante, ma la
    corsa ricevette molte critiche dalla stampa. Non piacquero i tratti dietro motori in salita, giudicati un
    controsenso; non piacque il fatto che i corridori, tutti professionisti ad ingaggio, percorressero ad
    andatura turistica le semitappe in attesa dell'aggancio fatidico alle motociclette. La pioggia, inoltre,
    disturbò parecchio, al punto che “l'australiana” sul circuito de L'Aquila venne annullata per il rifiuto
    degli atleti di esibirsi in condizioni di elevato rischio.
    Nel 1957 Bertocco cercò di migliorare le cose cominciando dalla moto: al posto della Gilera entrò
    la Guzzi. La ditta lecchese era stata la prima fabbrica al mondo a costruire una galleria del vento in
    rapporto uno a uno, con varie conseguenze sulle strutture carenate dei suoi modelli. Nel 1950 aveva
    prodotto il “Galletto”, il primo scooter a ruote normali. La Guzzi impiegò per il Ciclomotoristico la
    “Lodola 175”, che dava le garanzie di velocità e tenuta necessarie. Il binomio Guzzi-Corriere dello
    Sport partorì un'ottava edizione molto bene organizzata, ricca di assi (dei più forti italiani assenti
    solo Nencini e Baldini) e con un itinerario in otto giornate che spaziò dal Tirreno all'Adriatico, con
    latitudine massima a Macerata e minima a Salerno. Scelta obbligata anche per via del quasi
    concomitante Giro della Campania. Un trofeo speciale venne intitolato a Ockers, morto in pista ad
    Anversa nel settembre del '56. La gara venne resa la più varia possibile, con un misurato cocktail di
    prove in linea, tratti in salita e tratti dietro motori, in modo da evitare i momenti di caduta della
    tensione agonistica. La presentazione fatta all'epoca da Natale Bertocco:
    […] In questi otto anni la gara prima lanciata da «Il Tempo» e lo scorso anno ereditata dal quotidiano
    sportivo romano ha compiuto passi giganteschi: da due giornate di gara si è giunti a otto, con dodici
    settori. Praticamente dodici vere e proprie tappe anche se talune brevi, con tratti in linea e dietro
    motori, la qual cosa consente a tutti, anche ai comprimari, di giocare le proprie carte. Il numero dei
    concorrenti è andato anch'esso via via aumentando, pur lentamente per le caratteristiche della prova
    che non consente partecipazioni di massa, passando dai 28 del 1950 ai 42 di quest'anno. Delle dodici
    tappe o settori, nove si concluderanno in circuito dietro le veloci e sincronizzate «Guzzi 175 cmc », la
    nuovissima Lodola lanciata recentemente dalla grande Casa di Mandello Lario: a Caserta, Napoli,
    Salerno, Campobasso, Pescara, Ascoli, Spoleto, Rieti e Roma naturalmente. Si tratta di circuiti tra i più
    belli e spettacolari scelti con criterio tecnico, ad ampio respiro. Taluni addirittura fantasiosi come
    quelli sui lungomare di Napoli e di Salerno, o sul viale dei platani secolari di Caserta, o ancora quello
    fascinoso delle Terme di Caracalla. Due volte a chiusura di tappe in linea entreranno egualmente in
    scena le «Lodola»: a Chieti dal bivio della Tiburtina alla città teatina; ed a Teramo, negli ultimi dodici
    chilometri degli immensi stradoni che dall'Adriatico, Giulianova, conducono alle pendici del Gran
    Sasso. Ma c'è di più. Gli organizzatori si sono preoccupati di equilibrare le forze in campo, dando agli
    arrampicatori la possibilità di recuperare gli eventuali ritardi che dovessero sommare nei tratti
    motorizzati. Ecco infatti una tappa interamente in linea e in dura ascesa: la Campobasso-Roccaraso,
    con i valichi notevoli del Macerone e di Rionero Sannitico, oltre all'ascesa da Castel di Sangro al piano
    delle «cinque miglia». Inoltre, gli arrampicatori potranno godere di abbuoni di tempo (30” al primo e
    15” al secondo) nei sei traguardi del Gran Premio della Montagna: a San Giuliano del Sannio, al
    Macerone, a Rionero, a Croce di Casale, a Colfiorito e al Passo della Somma. Le tappe volanti
    serviranno a vivificare la corsa, disseminate come sono, qua e là nelle otto giornate di gara.
    Il menù è insomma di classe, degno di un grande banchetto, di una completa competizione
    internazionale. Quali siano i commensali è noto a tutti. I maggiori esperti dei «dietro motori» sono stati
    chiamati in causa. Taluni corridori stranieri porteranno dal Belgio, dalla Francia e dalla Svizzera i
    propri «coéquipiers», a conferma della importanza che la figura dell'allenatore motociclista riveste in
    questa competizione. Tutti i vincitori delle maggiori classiche di apertura di stagione saranno
    protagonisti dell'VIII GP delle Nazioni: anzitutto Alfred De Bruyne, che capeggia la classifica della
    «Challenge Desgrange-Colombo», quindi Van Looy, Van Steenbergen, Gaul, Koblet, Strehler, Poblet,
    Impanis, De Cook, Gauthier, Dupont, Rolland, Van Est, Wagtmans, Keteleer e Lauwers. Uno
    schieramento formidabile al quale il ciclismo italiano cercherà di opporre quanto di meglio passa in
    questo momento il nostro convento: Albani, Defilippis, Fabbri, Monti, Conterno, Moser, Minardi,
    Maule, Dall'Agata, e i giovani Emiliozzi, Bartoluzzi, Mauso, Carlesi ed altri ancora, nella speranza che
    qualcosa di nuovo e di grande si verifichi. Il pronostico è comunque pienamente favorevole agli
    stranieri, in attesa per noi di tempi migliori. La manifestazione mobiliterà centinaia di migliaia, forse
    milioni di spettatori. Un successo, anche questo, assicurato in partenza. E che si aggiunge a quello
    tecnico, spettacolare, propagandistico che ha sottolineato le prime sette edizioni dell'ardita corsa di
    avanguardia.
    Gli sforzi di Bertocco furono premiati in pieno, giacché la corsa fu entusiasmante sotto il profilo
    agonistico e riscosse un'adesione di pubblico senza precedenti, paragonabile alle tappe alpine del
    Giro. Lo stesso Emilio De Martino, uno dei soloni del giornalismo sportivo, fu costretto a rivedere
    le sue critiche sempre negative: «Desidero riconoscere oggi che la tenacia e la volontà degli
    organizzatori romani hanno creato una corsa dl tutto originale che ha diritto di vita fra le migliori
    del mondo internazionale». Da Roma a Spoleto ad Ascoli a Pescara, la gara vide protagonisti il
    laziale Alberto Emiliozzi e il trentino Aldo Moser, due prodotti della nouvelle vague chiamata a
    sostituire la triade Bartali-Coppi-Magni. Una caduta di Emiliozzi sul circuito pescarese – il
    ventiseienne di Tarquinia correva per la squadra belga Faema ed era un protetto di Learco Guerra –
    fece avvicinare uno degli stranieri più pericolosi, Wout Wagtmans, pilotato tatticamente da
    Costante Girardengo. Il ciclista olandese sfruttò i tratti dietro motori e i circuiti cittadini per
    superare i due italiani e aggiudicarsi la corsa davanti a Miguel Poblet. Lo spagnolo, leader della
    Ignis, vinse l'ultima prova a Caracalla, al cospetto di oltre trentamila spettatori che speravano in un
    successo di tappa di Monti. Poblet fu suo malgrado al centro di un piccolo sgarro combinato alla
    casa varesina che produceva elettrodomestici: il giorno dell'arrivo a Pescara la Ignis ci teneva al suo
    successo, perché aveva programmato d'inaugurare la sua fabbrica locale esattamente nel momento
    in cui lo spagnolo avrebbe tagliato il traguardo. Ma Van Steenbergen buggerò il primo posto, e così
    allo stabilimento, davanti alle maestranze riunite, saltò in aria il tappo della bottiglia di champagne
    senza la vittoria sportiva. Buona fu, per l'appunto, la difesa del campione del mondo Ryk Van
    Steenbergen, quinto alle spalle di Moser, quest'ultimo iscritto per la Carpano-Coppi, e sfortunata
    quella di Emiliozzi, alla fine solo quarto in classifica. Deludenti il campione di Francia Bernard
    Gauthier, il campione d'Italia Giorgio Albani, l'iridato d'inseguimento su pista Guido Messina e il
    giovane belga Ryk Van Looy, destinato a divenire uno dei più forti velocisti nella storia del
    ciclismo su strada. Su questi atleti pesò l'inesperienza in una corsa ibrida che, coi suoi 220 km
    dietro le Guzzi, i rischi di cadute, le interruzioni a getto continuo, la discrepanza numerica delle
    squadre in competizione, presentava notevoli problemi d'adattamento. Come rilevò Rino Negri, uno
    dei tanti cronisti al seguito (tra loro segnaliamo il telecronista Nando Martellini), non era certo tutto
    rose e fiori il GP delle Nazioni:
    Van Steenbergen, Albani, Maule ed altri non ci hanno nascosto che se l'anno venturo il
    «Ciclomotoristico» presenterà tante tappe e tanti chilometri da correre nella scia del motociclista come
    quest'anno, rifletteranno a lungo prima di dare la loro adesione. Ci rifiutiamo di credere che gli
    organizzatori siano decisi ad aumentare ancora le giornate di gara, fino a portarle a tredici. A meno
    che essi non vogliano rinunciare all'ausilio degli allenatori meccanici. Quest'anno, al «via» dei tratti
    motorizzati, non si faticava ad indicare il nome del vincitore, esattamente come è accaduto in passato,
    dal giorno cioè in cui il «Ciclomotoristico» è nato. E sapete perché? Semplice: dei quarantadue
    concorrenti soltanto sette od otto riuscivano a pedalare senza inzuccare nel rullo!
    La marcia verso sud riprese nel 1958, quando la corsa arrivò fino a Taranto. Il Corriere dello Sport
    era un'azienda floridissima che aveva come obiettivo rimpiazzare completamente la rivale Gazzetta
    dello Sport nelle vendite da Bologna in giù. Come abbiamo accennato, essa aveva sviluppato negli
    anni cinquanta un settore organizzativo, diretto da Bertocco, che includeva molti eventi in svariate
    specialità, dal nuoto all'atletica, dallo sci al calcio, al ciclismo e al motorismo. Le sue redazioni
    nelle principali città meridionali aiutarono l'ingrandimento dell'organizzazione del Ciclomotoristico.
    E decisivo fu l'ingresso di sponsor di prestigio. Da un manifesto pubblicato dalla tipografia romana
    del Corriere per la IX edizione, vediamo che la Campari metteva in palio per il vincitore un milione
    di lire. Che la Ramazzotti patrocinava il Gran Premio della Montagna e la Chinotto Neri la
    Classifica Stranieri. La Aspro organizzava la Giroclinica, la Shell forniva i carburanti, la Longines
    gli apparati di rilevamento cronometrico. La Simmenthal si occupava della Pagella dei Corridori, la
    Faema dei rifornimenti, la Ignis del Gran Premio dell'Industria, la Asborno delle tappe volanti,
    l'Egeria metteva i premi della tappa di Roma, la Appia quelli della tappa di Foggia, la Aurum quelli
    della tappa di Taranto. Un gruppo di marche associate patrocinava il Trofeo Fynsec, destinato al
    vincitore del circuito di Caracalla. Quarantadue atleti di otto nazioni si contesero un volume di
    premi montante a svariati milioni di lire, in sette giornate dal 30 aprile al 6 maggio. La corsa fu
    appannaggio di Joseph Hoevenaers, un belga della Faema che avrebbe avuto un solo altro momento
    di popolarità, nel 1960, giungendo terzo al mondiale su strada. Hoevenaers si dimostrò perfetto
    dietro i rulli, bene supportato dal guzzista Montanari. I posti d'onore andarono a Poblet e al
    novarese Giuseppe Fallarini. Maluccio andò la stella italiana Ercole Baldini, che pagò l'inesperienza
    dietro il rullo, pur provenendo lui stesso dalla pista.
    Per l'edizione del decennale, quella del 1959, la novità più grossa fu rappresentata dal ritorno in
    campo della Lambretta, che impiegò il modello Tv 175 cmc dotato di motore centrale e cambio a
    quattro velocità. Bertocco si preoccupò di recuperare un po' degli assi che la concorrenza dei
    concomitanti Giro della Svizzera Romanda e Giro di Spagna tendevano a soffiargli. Prima di tutto
    ottenne l'adesione di Baldini, campione iridato in carica. Il veronese di Villafranca, leader della
    Ignis, deteneva il primato assoluto dell'ora, portava la maglia tricolore e aveva vinto l'ultimo Giro
    d'Italia. Per la sfida a Baldini, l'organizzazione pensò a Charly Gaul, recente trionfatore al Tour, al
    sempiterno Louison Bobet e a Miguel Poblet, cioè il meglio di Francia e di Spagna; più Gastone
    Nencini, il ventinovenne di Barberino di Mugello capofila della GS Carpano, che la stagione dopo
    avrebbe coronato la sua carriera vincendo il Tour. La gara si sviluppò in nove giornate, toccando
    per la prima volta la Calabria e la Sicilia, con il trasbordo dei corridori in aliscafo allo stretto di
    Messina. Le città interessate furono undici: Roma, Napoli, Foggia, Taranto, Reggio, Messina,
    Catania, Siracusa, Agrigento e Palermo. Per cui si parlò di una “Roma-Napoli-Palermo” lunga
    1.800 km e sponsorizzata da quindici ditte, più l'organizzazione del Corriere dello Sport. I
    corridori saggiarono ben nove circuiti cittadini e s'impegnarono in tre tappe in linea con arrivi in
    salita. Baldini, fuori forma e subito strappato, lasciò via libera a Bobet, insidiato fino all'ultimo da
    Nencini, che coi francesi (famose le sue lotte con Anquetil al Giro e al Tour) aveva sempre un conto
    aperto. Il campione transalpino – viaggiante sui trentaquattro e al volgere di una carriera
    luminosissima, atleta completo, forte sul passo e in salita, con buoni spunti da velocista – si ripeté
    nel 1960, battendo questa volta Wagtmans, in un'undicesima edizione del Ciclomotoristico che non
    giunse in Sicilia.
    Le edizioni del 1959 e 1960 servirono a Bertocco per ritoccare ancora la sua creazione, soprattutto
    in relazione all'incidenza dei motori sul risultato finale. Le innovazioni studiate riguardarono il
    percorso, con molti più tratti in linea, l'aumento delle concessioni degli abbuoni in montagna,
    l'estensione degli stessi agli arrivi delle tappe e semitappe in linea, la riduzione dei circuiti cittadini
    (nel 1960) e l'arrivo di una tappa senza l'agganciamento; si fece ammenda dell'errore commesso nel
    1960, quando i tratti dietro motore erano stati separati da quelli in linea, togliendo agli spettatori il
    brivido e lo spettacolo del rischioso aggancio al rullo. Nel 1960 la corsa toccò, dal 20 al 27 aprile,
    Caserta, Foggia, Manfredonia, Pescara, San Benedetto del Tronto, Riccione, Rimini, Nocera Umbra
    e Spoleto. Nel 1961 l'itinerario presentò sette tappe, e sempre senza il transito a Napoli: da Roma a
    L'Aquila, verso est per Teramo, Pescara, Ortona, Foggia, e risalita per Campobasso, Salerno, Stabia,
    Caserta, Roma. Un totale di 1309,940 km, dei quali solo una piccola parte aventi a protagonista la
    Lambretta. Imponente il parterre degli sponsor: Innocenti, Aspro, Aurum, Campari, Longines,
    Fynsec, Lama Bolzano, Magnadyne-Kennedy, Chinotto Neri, Philco, Ramazzotti, Remington,
    Ferrarelle, Gazzola, Totocalcio. Buono ma non eccezionale il parterre dei corridori, suddivisi in
    undici squadre ciascuna composta di quattro elementi: Philco, Molteni, Legnano, Gazzola, Fynsec,
    Ghigi, Atala, Torpado, Carpano, St. Raphael e Bianchi. Mancavano alcuni dei campioni del
    momento, distolti dalla preoccupazione di partecipare belli freschi al quarantaquattresimo Giro
    d'Italia, quello del Centenario dell'Unità, arzigogolato in maniera tale da varare una tappa in tutte e
    venti le regioni, perfino in Sardegna. Soprattutto mancavano Jacques Anquetil, il leader della
    Helyett-Fynsec, la Ignis di Poblet, la Faema di Van Looy e nomi nuovi del ciclismo nazionale come
    Arnaldo Pambianco e Vito Taccone.
    C'era, però, Charly Gaul, il minuscolo lussemburghese arrampicatore di razza, amatissimo dalle
    folle e che s'era messo in testa di vincere il Ciclomotoristico, sfuggitogli in quel 1956 che l'aveva
    visto trionfare al Giro. Il GP 1961, irto di montagne, sembrava fatto apposta per lui, per l'angelo
    della montagna che affrontava i più difficili dislivelli in piedi, “en danseuse”, ragion per cui il neoleader
    della Gazzola veniva dato nel lotto dei favoriti. Nella realtà delle cose, la gara partì subito
    male per Gaul, sfortunato nell'aggancio al rullo della tappa Roma-L'Aquila. La corsa nelle sue fasi
    iniziali vide avvicendarsi alla testa della classifica vari corridori: il perugino Carlo Brugnani della
    Torpado, alcuni belgi, francesi e olandesi: Emile Daens, Johan De Haan, Michel Van Aerde, Jean
    Graczyc. Fino a a quando, a Foggia, la folla andò in delirio per la vittoria e la conquista del
    primato da parte di Silvano Ciampi, un pistoiese che aveva qualità di velocista. Ma nella seconda
    fase, ricca di salite sugli Appennini, Graczyc, il leader della Fynsec, prese il comando. Il polacco
    naturalizzato francese, un classe 1933 buon pistard e velocista, conquistò la maglia giallorossa a
    Campobasso. La difese senza problemi fino a Roma, dimostrandosi una sorta di «Fregoli della due
    ruote». L'ultima tappa sul circuito di Castel Fusano (già nel 1960 il circuito di Caracalla era saltato,
    per via delle Olimpiadi) fu vinta da Diego Ronchini, capofila della squadra Ghigi. Graziano
    Battistini, un venticinquenne di Forsdinovo ingaggiato nella Legnano, e Ciampi arrivarono alle
    spalle di Graczyc, precedendo De Haan e l'imolese Ronchini.
    Giuseppe Melillo, direttore ad interim del Corriere dello Sport, scrisse che non si era mai visto un
    Ciclomotoristico «così bello, di altissimi valori tecnici e ottimistico contenuto agonistico», con
    molti giovani in evidenza: Brugnami, Ciampi, Battistini, Bailetti, Rondini, Trapé, Balmanion: «Una
    festa del ciclismo moderno». Ma il suo ottimismo non aveva un futuro da vendere. Nel maggio del
    1961 la proprietà editoriale della Srl Corriere dello Sport passò di mano, dal vecchio Umberto
    Guadagno alla Rusconi & Paolazzi. La nuova proprietà milanese non appoggiò il piano di Bertocco
    per una edizione 1962. Il GP Ciclomotoristico delle Nazioni morì lì. E con lui la sua antenata: la
    XX Settembre o Roma-Napoli-Roma. Una fine improvvisa per una corsa leggendaria e originale,
    nata in autunno e morta in primavera.
    BIBLIOGRAFIA CONSULTATA
    Giornali:
    Il Messaggero, L'Italia Sportiva, la Gazzetta dello Sport, La Domenica Sportiva, Il Littoriale, Il Corriere dello Sport,
    Stadio Sportivo.
    Riviste:
    Lo Sport Illustrato, Tutti gli Sports, Il Calcio e il Ciclismo Illustrato, Lo Sport, Il Campione, Sport Illustrato, Strenna
    dei Romanisti.
    Libri e almanacchi:
    ? Almanacco di Roma 1924, Bologna 1923
    ? Annuario Italiano dello Sport per l'Anno XIV E.F., Milano 1937
    ? Annuario della Gazzetta dello Sport 1937, Milano 1938
    ? G. Giardini, Andare in bicicletta, Milano 1941
    ? A. Gardellin, Storia del velocipede e dello sport ciclistico, Padova 1946
    ? E. Visceglia, Guida toponomastica di Roma, Roma 1951
    ? G. Brera, L'avucatt in bicicletta, Milano 1952
    ? Autori vari, Dizionario dello Sport e dei Giuochi Sportivi, Milano 1953
    ? N. Bertocco, L'abc dello Sport, ovvero: la Società sportiva, Roma 1953
    ? S. Jacomuzzi, Gli Sport, Torino 1965
    ? Autori vari, Enciclopedia dello Sport, Roma 1967
    ? G. Cerri, Le avventure di Alfredo Binda, Roma 1980
    ? R. Mariani, Il mondo su due ruote, Roma 1986
    ? O. Vergani, L'uomo a due ruote. Avventura, storia e passione, Milano 1987
    ? Autori vari, La storia illustrata del ciclismo, Firenze 1988
    ? L. Serra, I giganti della strada. Il ciclismo “eroico” 1891-1914, Reggio Emilia 1996
    ? D. Marchesini, L'Italia del Giro d'Italia, Bologna 1996
    ? L. Iacovella & G. Raviola, Una magia un sogno. Un secolo di campionati italiani di ciclismo, Roma 1999.
    ? D. Marchesini, Coppi e Bartali, Bologna 2002
    ? M. Impiglia, Corriere dello Sport-Stadio, ottant'anni insieme, Roma 2004
    ? M. Impiglia, AS Audace di Roma 100 anni di campioni, Roma 2005
    ? D. Beni jr & D, Beni, 1909-2009 il mio Giro. La storia della competizione ciclistica narrata da due
    protagonisti, Roma 2009
    STATISTICHE DELLA CORSA CICLISTICA
    ROMA-NAPOLI-ROMA – XX SETTEMBRE
    GRAN PREMIO CICLOMOTORISTICO DELLE NAZIONI
    Prospetto riassuntivo delle 39 edizioni della corsa
    Anno data Primo arrivato Secondo arrivato Terzo arrivato
    1902 19-20 sett. Ferdinand Grammel Alfredo Jacorossi Vincenzo Spadoni
    1903 19-20 sett. Vincenzo Spadoni Angelo De Rossi Alberto Mancinelli
    1904 19-20 sett. Achille Galadini Piero Albini Ferdinand Grammel
    1905 19-20 sett. Eberardo Pavesi Giulio Modesti Alfredo Jacobini
    1906 19-20 sett. Carlo Galetti Amedeo Baiocco Ferdinand Grammel
    1907 19-20 sett. Giovanni Gerbi Alfredo Jacobini Umberto Zoffoli
    1908 19-20 sett. Giovanni Gerbi Luigi Chiodi Luigi Ganna
    1909 19-20 sett. Giovanni Gerbi Eberardo Pavesi Pietro Aymo
    1910 19-20 sett. Mario Bruschera Luigi Ganna Carlo Galetti
    1911 19-20 sett. Dario Beni Carlo Galetti Ugo Agostoni
    1912 19-20 sett. Dario Beni Giuseppe Santhia Gino Brizzi
    1913 19-20 sett. Costante Girardengo Giosuè Lombardi L. Ganna & C. Galetti
    1914 19-20 sett. Dario Beni Ugo Agostoni Giuseppe Pifferi
    Anno data Primo arrivato Secondo arrivato Terzo arrivato
    1918 19-20 sett. Giuseppe Pifferi Marzio Germoni Augusto Cocchi
    1919 19-20 sett. Alfredo Sivocci Giuseppe Azzini Giosuè Lombardi
    1920 19-20 sett. Angelo Marchi Lauro Bordin Nicolò Di Biase
    1921 20 sett. Costante Girardengo Gaetano Belloni Federico Gay
    1922 20 sett. Costante Girardengo Federico Gay Emilio Petiva
    1923 20 sett. Costante Girardengo Giuseppe Azzini Federico Gay
    1924 20 sett. Romolo Lazzaretti Michele Gordini Costante Girardengo
    1925 20 sett. Costante Girardengo Gaetano Belloni Adriano Zanaga
    1926 28 nov. Alfredo Binda Leonida Frascarelli Giuseppe Pancera
    1927 19-20 sett. Giuseppe Pancera Pietro Fossati Michele Gordini
    1928 19-20 sett. Antonio Negrini Luigi Giacobbe Pietro Fossati
    1929 19-20 sett. Gaetano Belloni Domenico Piemontesi Pietro Bestetti
    1930 19-20 sett. Michele Mara Raffaele Di Paco Domenico Piemontesi
    1934 9 sett. Learco Guerra Umberto Guarducci Isidoro Piubellini
    GRAN PREMIO CICLOMOTORISTICO DELLE NAZIONI
    Anno data Primo arrivato Secondo arrivato Terzo arrivato
    1950 20-21 aprile Jean Robic Fausto Coppi Louison Bobet
    1951 14-16 aprile Ferdinand Kubler Guido De Santi Nedo Logli
    1952 17-20 aprile Fiorenzo Magni Constant Ockers Jean Robic
    1953 22-26 aprile Fiorenzo Magni Constant Ockers Bruno Monti
    1954 28 apr – 1°mag Bruno Monti Fausto Coppi Ryc Van Steenbergen
    1955 27 apr – 1°mag Bruno Monti Nino Defilippis Fausto Coppi
    1956 25-29 aprile Constant Ockers Bruno Monti Charly Gaul
    1957 21-28 aprile Wouter Wagtmans Miguel Poblet Aldo Moser
    1958 30 apr – 6 mag Joseph Hoevenaers Miguel Poblet Giuseppe Fallarini
    1959 29 apr – 7 mag Louison Bobet Gastone Nencini Armando Pellegrini
    1960 20-27 aprile Louison Bobet Wouter Wagtmans Carlo Brugnami
    1961 25 apr – 1° mag Jean Graczyc Graziano Battistini Silvano Ciampi


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    Federciclismo

    Federazione Ciclistica Italiana





    La storia della Roma Napoli Roma

    LA CORSA CICLISTICA XX SETTEMBRE
    di Marco Impiglia

    […] Poi fu l'avvento del ciclismo e della Roma-Napoli-Roma in una sola tappa, per il XX settembre. I
    corridori partivano con lo zaino affardellato, e qualche volta arrivando magari trainati da un'automobile
    compiacente, se non avevano dovuto abbandonare sotto le sassaiole notturne dei contadini. Erano i tempi di
    Gerbi, dalla maglia rossa, e delle gare pittoresche e piene di impreveduto […].
    Orio Vergani, Almanacco di Roma 1924.
    Roma in bici a inizio Novecento
    «Intravedo razze di meravigliosi pedalatori, quando il ciclismo avrà terminato la rivoluzione dei
    costumi moderni». Questo scriveva Emile Zola nel 1902, anno in cui il romano di nascita tedesca
    Ferdinando Grammel si aggiudicava la prima edizione della XX Settembre. Siamo in pieno
    nell'epoca in cui il vecchio «corsiero d'acciaio» ha mutato nella moderna «bicicletta». Merito di
    Dunlop che ha inventato i pneus, e poi di Michelin che l'ha resi smontabili, e di Pirelli che, nel
    1892, ha ideato il “Milano”, molto sbrigativo da montare; e merito di tutti i componenti meccanici
    che hanno trasformato il telaio tubolare di una macchina sorprendente. E così si filava. Su strade per
    la maggior parte orrende, però. Per cui siamo anche in un periodo in cui il ciclismo su pista è molto
    più popolare del ciclismo su strada; nato, quest'ultimo, come prova di resistenza rispetto al primo.
    In pista: agilità, velocità, acrobatica, belle dame sulle tribune, aperitivi. Su strada: durezza, senso
    dell'avventura, tendenza al masochismo, natura, solitudine. I routiers come eroi? Lo erano. Così li
    dipingevano i giornali e così venivano visti e goduti dai suivers. I termini francesi già ci indicano da
    dove provenisse la balza. Quando, nel 1901, i fiduciari della Società Sportiva “Forza Coraggio”
    parlarono d'organizzare una Roma-Napoli-Roma, gara di 460 chilometri da percorrersi senza soste,
    da due lustri esistevano le apocalittiche Lione-Parigi-Lione di 1040 km e Parigi-Brest-Parigi di
    1.200 km. Quest'ultima stava in calendario proprio a settembre, mese buono per le prove su strada
    in Francia e nel nord Italia, prima dell'arrivo delle piogge d'autunno. La storia della nascita della
    “XX Settembre” l'abbiamo già raccontata in uno dei due volumi dedicati all'Audace Club Sportivo.
    Infatti, l'Audace, società ancora oggi in vita e tra le più gloriose dello sport capitolino, sortì fuori da
    un litigio su come doveva combinarsi la corsa: aperta a tutti o solo per i professionisti e i licenziati
    UVI, l'Unione Velocipedistica Italiana la cui sede stava a Milano? Mista o separate le due specie
    amateur e pro?
    E' facile intuire che la data e il titolo della corsa abbiano tratto spunto dal desiderio di celebrare la
    presa di Roma al papa; ulteriore beffa a quei ministri di Dio che lo sport l'aborrivano in buona
    misura. Epperò, ci sono particolari e situazioni da enucleare: che tipo di sodalizio era quello che
    promosse la corsa? Perché lo fece? Che situazione c'era a Roma per il ciclismo? La Forza e
    Coraggio, volta a praticare un po' tutte le discipline più amabili – dal ciclismo al podismo, dalla
    lotta ai pesi e alla ginnastica, dal nuoto al tamburello e al football – aveva la sua sede in via XX
    Settembre; nell'attigua via Belisario, al civico 17, possedeva una pista in legno con chalet svizzero.
    In quello chalet, il 10 ottobre 1901, avvenne il litigio. Un gruppo di soci, capeggiati dal funzionario
    daziario Aurelio Cappabianca, un piemontese mecenate dello sport, non si trovò d'accordo con Nino
    Ilari, noto giornalista, poeta, corrispondente della Gazzetta dello Sport, sulla maniera d'allestire la
    gara. Cappabianca e soci si staccarono, da quella serata di conciliaboli finita a insulti fondarono
    l'ACS. La Forza e Coraggio era la più attiva della dozzina di società che s'interessavano di ciclismo.
    C'erano l'Audax Italiano (derivazione del Touring, raccoglieva tutti coloro in grado di fare 200 km
    in un giorno), la Canottieri Aniene-Veloce Club, la Ginnastica Roma, la Velocipedistica Romana –
    che era stata la prima, di carattere più elitario rispetto alla F&C – l'Unione Ciclistica Romana, lo
    Sporting Club e altre due società minori: Il Pedale e la SC The Sport. Più la sede regionale
    dell'UVI, la quale sovrintendeva a molte situazioni agonistiche. A livello di ciclo-turismo, la rivale
    dell'UVI era il Touring Club Italiano. Nel 1896, sotto la presidenza del conte Agostino Biglione di
    Viarigi, l'UVI aveva dato alle stampe a Torino la prima Guida Ciclistica d'Italia, battuta di pochi
    mesi dal centinaio di guide-itinerario pubblicate e distribuite ai soci dal milanese TCI. Si trattava
    delle antenate delle mappe stradale automobilistiche di oggi!
    L'agonismo degli abitanti della capitale del Regno d'Italia, in fatto di bici, si rivolgeva per lo più alla
    pista. Nell'area di Porta Pinciana e dei quartieri Ludovisi e Sallustiano, edificati dagli invasoriliberatori-
    unificatori savoiardi per fare Roma a loro immagine e somiglianza, si concentravano gli
    impianti. D'altronde, era grazie ai “paini”, agli immigrati dal settentrione, che Roma vibrava per lo
    sport ed era divenuta una città in espansione di 435.000 abitanti, più del doppio rispetto alla
    sonnacchiosa Roma del 1870. Le aree verdi di Villa Borghese, chiuse da Porta del Popolo e
    innervate dalla Flaminia, che fungeva da direttrice e via maestra del ciclismo capitolino, avevano il
    loro punto più sportivo nella conca alberata di Piazza di Siena. Lì nel verde, dal 1894, la villa
    ospitava una pista in legno di 400 metri di sviluppo, con curve sopraelevate per gli amanti del
    brivido a due ruote. Fuori Porta del Popolo, in via dei Bagni, s’innalzava la pista con chalet della
    “Velocipedistica”. Passata Porta Pinciana, s'indovinava la sagoma del Velodromo “Roma” (dal
    1895) in via Isonzo, sede dello Sporting Club e di proprietà dei costruttori milanesi Bertone e
    Fossati; di lì a un paio d'anni, avrebbero cominciato a buttarlo giù per far posto a nuovi, severi
    palazzi. Poi i due sferisteri, Romano e Sallustiano, per gli scommettitori dei giochi con la palla
    toscani, e un trittico di piste: la “Eden” in via Ludovisi, quella in via Sardegna e l'altra in via
    Belisario, sul luogo dove fino a pochi anni prima sorgevano le millenarie mura. Infine, la Pista
    Tomei di via Quintino Sella, di proprietà del negoziante di velocipedi Adolfo Tomei e sede della
    Unione Ciclistica del conte Ugo Celani; qui si organizzavano seguitissime gare di pistard
    professionisti e lezioni di bicicletta a settanta centesimi l’ora. In via XX Settembre c’era la sede
    della Società della Caccia alla Volpe, che vantava tra i soci i principi dell'aristocrazia nera. Per un
    breve periodo, dopo essere stati tra i pionieri del biciclo, i nobili romani s’interessarono al ciclismo,
    riprendendo dall’Inghilterra la moda di una caccia alla volpe su gomma (paper hunt) da eseguirsi di
    giorno a Villa Borghese o, nelle serate estive, nel centro storico cittadino. Ma la loro bizzarria era
    un dispetto: infatti la bici moderna, meno costosa (molti cittadini l'assemblavano da soli, con pezzi
    rimediati qua e là nelle officine apposite), era ormai alla portata della gente comune. I campioni non
    erano più loro, belli e fieri sugli alti bicicli, ma contadini che olezzavano di cacio. In specie i
    routiers, quando si fermavano in trattoria, puzzavano come bestie, e nessun esponente dei ceti
    sociali superiori ci teneva a mischiarsi con tipi che, in buona parte, neppure sapevano usare un
    corretto italiano. Bici ed emersione delle masse facevano comunella: c'era già stato perfino un inno
    alla bici proletaria, composto per l'inaugurazione del ciclo club romano “Avanti!”, pubblicato sulla
    Gazzetta dello Sport nell'agosto 1900.
    Ecco, questo è un punto importante da sottolineare: la corsa di biciclette XX Settembre arriva
    nell'esatto momento in cui il sol dell'avvenire risplende e i signori si stufano del velocipedismo. La
    manifestazione è quindi portata dai tempi nuovi, riflette la volgarizzazione dello sport, la sua
    nazionalizzazione nell'Italia savoiarda, e non per niente simbolicamente si richiama ai bersaglieri
    ciclisti e alla breccia di Porta Pia. E' la nuova classe media che se la inventa. Grazie anche alla
    propaganda del Touring, il ciclismo sta trovando la sua consacrazione come sport non solo della
    borghesia ma anche del proletariato urbano e rurale. Ci sono dentro i motivi dell'industria, certo,
    con la pubblicità delle marche di biciclette che bisogna far conoscere alla clientela, ma non c'è più
    eleganza né esibizionismo, sparite le uniforme rosse e blu dai bottoni preziosi. Guardiamoli bene,
    questi primi concorrenti alla XX Settembre. Bardati come sono, camicie a righe colorate e pantaloni
    lunghi di fustagno, berretta rotonda, alcuni usano quelle per i bagni di mare, scarpette larghe di
    pianta, fiasche e borse a tracolla, con dentro i preziosi ferri per le riparazioni, sembrano una via di
    mezzo tra fantini, esploratori del Congo ed erranti sollevatori di pesi di sughero da piazza. Alcuni
    parlano dialetti ostrogoti e temono i briganti del regno borbonico: ci manca solo che gli spunti la
    bocca di uno schioppo dalla schiena curva. Siamo a Porta Pia, è il mattino del 19 settembre 1902.
    Davanti a loro i ciclisti routiers hanno ventiquattr'ore di pedalate nel fango-polvere-brecciolino e
    temibili, incognite avventure. La ricompensa a tanta fatica? La medaglia d'oro offerta dalla regina
    madre al vincitore, che riceve anche un quadro ad olio del pittore Giacomo Balla; quella della F&C
    al secondo arrivato, cui spetta un binocolo offerto dalla Marina Militare, altre medaglie di vario
    metallo, camere d'aria e fanali elettrici o ad acetilene, strumentazioni per la bici, oggetti artistici tipo
    terracotte, statuine in bronzo e simili. Si corre, in pratica, per la gloria.
    Gli eroi della strada (1902-1914)
    La prima edizione cadde sotto il patrocinio dell'UVI, per cui l'iscrizione fu limitata ai licenziati del
    settore dilettanti. Partirono in 27, quasi tutti delle società capitoline sopra citate. Fra loro, quattro
    ragazzoni scesi dal nord: Tarquinio Soave del Veloce Club Vicentino, Clemente Antonelli della
    Virtus Bologna, l'astigiano Giovanni Gerbi e l'alessandrino Massimo Remondino. Si distingueva
    Gerbi, un diciassettenne che correva con la sua “biciclina” - come la chiamava lui - da due stagioni
    ed aveva appena vinto la Coppa del Re, promossa dalla Velocipedistica Romana e definita «grande
    marcia ciclistica di resistenza». Indossando un maglione fiammante, col tempo e con le vittorie a
    ripetizione il “piciot” avrebbe meritato il soprannome di “Diavolo Rosso”. Quella Roma-Napoli-
    Roma il diavolo assunse per Gerbi le sembianze di alcuni tifosi esagerati, che a furia di chiodi lo
    costrinsero a fare un tratto a piedi. Giunse quarto. Cose del genere furono possibili, e sempre
    facilmente attuabili, durante le prime edizioni della gara. C'era una sola automobile al seguito,
    lungo le vie Casilina, Appia e le altre strade deserte di veicoli a motore. Per un tragitto mostruoso
    che, passando per San Cesareo e Valmontone (i bifolchi con viva apprensione guardavano, dalle
    finestrelle di legno e dagli usci delle cantine in attesa del mosto, quei matti in velocità), s'inoltrava
    nella Ciociaria e, dopo Frosinone, aveva a Cassino il primo controllo, quindi entrava in Campania,
    sfiorava lo storico sito di Teano – secondo richiamo risorgimentale dopo il raduno a Porta Pia –
    traversava Caserta e scendeva a Napoli, per il secondo controllo; al ritorno, seguiva invece la via
    Appia, costeggiando il Tirreno e toccando Aversa, Capua, Gaeta, Itri, Fondi, Terracina, piegando
    all'interno per evitare le Paludi Pontine e salendo su a Cisterna, Velletri, Albano e giù in discesa
    verso l'Urbe. E' da notare che la seconda parte era tale e quale ad un itinerario consigliato da
    William Brockedon un secolo prima (Road Book from London to Naples). In tutto, appunto, 460
    chilometri, ma su strade non asfaltate e affatto illuminate. Non che i corridori non fossero abituati:
    dal 1894 e dal 1897 si effettuavano al nord la Gran Fondo, di oltre 500 km, e 460 era più o meno il
    chilometraggio della tappa d'apertura del primo Tour De France, che si sarebbe corso l'anno
    successivo.
    Umberto Grioni, nel suo manuale Hoepli più volte ristampato, affermava essere un routier di
    primissimo ordine «chi senza danno alcuno alla salute può superare 100 km in cinque ore, per due o
    tre giorni di fila». E si conoscevano le imprese da globe-trotter di Luigi Masini, che nel 1893 era
    partito da Milano alla volta di Chicago, mandando corrispondenze al Corriere della Sera, e nel
    1897 s'era imbarcato in un grand tour dall'Alpi alle Piramidi nel quale aveva viaggiato su un tratto
    dell'Appia da Roma a Capua via Terracina. Il problema più grosso era dato dal sostentamento
    energetico. Al semplice cicloturista, il prof. Monaco consigliava di succhiare zollette di zucchero e
    centellinare acqua tinta di caffè. Ma, per mantenere medie elevate, i professionisti bevevano forte.
    C'era chi ingollava zabaioni di sedici uova al Barbera (un litro), e chi, nella Parigi-Brest di
    diciassette ore, arrivava a consumare cinquanta litri di bevande: caffè, tè, aranciate, acque minerali
    bevute o spruzzate. La torta di riso, i biscotti, le banane, la cioccolata e le gallette costituivano
    alimenti assai apprezzati.
    L'organizzazione della prima “XX Settembre” comprendeva la giuria, il giudice d'arrivo, i due
    starter e il cronografista, tutti soci della Forza e Coraggio. Essa prevedeva dapprima il raduno, alle
    cinque e 50 spaccate a Porta Pia, coi bersaglieri ciclisti e i corridori in due separate schiere; dopo un
    discorso patriottico, il corteo fendeva la città e, all'imbocco della via Casilina, partiva la gara. Nel
    1902 il via fu dato alle 7 e 6 minuti. L'arrivo era previsto ai Cessati Spiriti, valle dove un'osteria
    medievale, antica posta usa al cambio dei cavalli con origini forse risalenti alla papessa Giovanna,
    accoglieva il viaggiatore proveniente lungo l'Appia da sud. Calcolate che la via Pontina non
    esisteva ancora, dominavano le paludi e la malaria lungo il litorale tra Nettuno (Torre Astura) e le
    selve di Terracina. Il percorso era pauroso veramente, ci voleva un certo fegato ad affrontarlo in
    bicicletta. Solo dieci anni prima il treno era arrivato a bucare l'oscurità millenaria che aveva tagliato
    fuori le pievi meridionali dalla città di Roma. Ancora nel 1884 un funzionario del comune, il
    geometra Tito Berti, scriveva nel suo volume Paludi Pontine che il viaggio in diligenza, lungo otto
    ore, tra Velletri e Terracina era «il peggior viaggio a cui possa essere condannato un uomo. Anche il
    terrazzano, che è costretto a farlo sovente per interessi e per commercio, vi si risolve a malincuore e
    il più tardi possibile». Prima dell'avvento della locomotiva a vapore, andare da Roma a Napoli
    prendeva qualcosa come venti ore; al principio dell'Ottocento erano state quarantacinque. I più
    veloci routiers della prima XX Settembre ne impiegarono poco più di dieci: il doppio del treno.
    Per le prime fasi i corridori avevano mosche cocchiere nei cosiddetti suivers, cioè gli appassionati a
    bordo di biciclette proprie. L'accompagno poteva durare, sfilacciandosi il gruppo, anche una
    cinquantina di chilometri. Dopo di che gli atleti rimanevano soli, con tutti i loro problemi e le ore di
    viaggio da affrontare. Cominciava la vera avventura, scandita dalle cadute, dalle forature delle
    camere d'aria e dai guasti alle “macchine” (così si chiamavano le bici, poi il sostantivo sarebbe
    passato agli automobili, che da maschi sarebbero divenuti femmine). Non ci si poteva concedere il
    lusso di una dormita, seppure breve. Le soste nelle locande servivano a bere qualcosa di caldo,
    espletare i bisogni corporali e rifocillarsi, quindi celermente si ripartiva. Di solito si formavano
    gruppetti, anche per il timore di sempre possibili assalti dei villici: i furti di frutta erano un cliché
    della corsa. Nessuno provava la tipica fuga in solitario, se non nella parte finale sull'Appia,
    all'ombra dei pini. Un momento temuto era l'alba del 20 settembre, quando le palpebre si
    chiudevano e occorrevano volontà e caffè per non fermarsi. I distacchi si contavano in minuti, in
    mezzore e in ore, ma non infrequenti giungevano, ad entusiasmare il pubblico romano, le volate a
    due, a tre o a quattro.
    L'edizione 1902 fu vinta giusto in volata. Ferdinand Grammel, un ventenne proveniente dalla zona
    di Stoccarda e portacolori dello Sporting Club, la terminò in 23 ore, 33 minuti e 15 secondi,
    tagliando il traguardo alle 6 e 40 del mattino, annunciato da squilli di tromba dei ciclisti bersaglieri.
    Il ragazzo aveva un'officina meccanica in via del Babuino. Montò una “Edoardo Bianchi” dal telaio
    (per l'epoca) ultraleggero e usufruì dell'appoggio dell'auto ufficiale della corsa. La sua bici fu
    esposta nei giorni seguenti nella vetrina del negoziante Solani, in via Quattro Fontane: i clienti
    poterono rilevare coi loro occhi come l'attrezzo, a dispetto di una caduta del suo proprietario, fosse
    in buone condizioni. Grammel batté di una manciata di secondi Alfredo Jacorossi - un pistard della
    Forza e Coraggio che usava una bici approntatagli del meccanico Augusto Bergami. pure lui in
    gara, e con quella si recava all'estero a guadagnar franchi e marchi. - Terzo si piazzò Vincenzo
    Spadoni, a bordo di una “Davide Feliciani”, altro meccanico con officina in via Cavour. Insomma,
    l'avrete capito: i meccanici romani Belle époque si guadagnavano la pagnotta con le biciclette, non
    con gli automobili. Staccati, giunsero Gerbi, l'audaciano Aldo Calligari, Adelchi Lupi della
    Velocipedistica, l'americano Iwer Lawson, che aveva partecipato in luglio ai campionati mondiali
    al Velodromo (così come Spadoni, il cui nome di battaglia presso gli scommettitori della pista era
    Zedel), Virgilio Gasperini e Giuseppe Micci, entrambi soci dell'Audace Club Sportivo, e infine
    Ernesto Bazzini dello Sporting Club. Scaduto il tempo massimo alle ore tredici, sei minuti e trenta
    secondi, si seppe che solo quelli erano i sopravvissuti al massacro: i restanti concorrenti tutti fermi
    lungo le pievi tra Roma e Napoli: il campione d'Alessandria Remondino bloccato a Capodimonte, il
    Soave perso tra i fumi di qualche vino bianco del Circeo, e un paio proprio dispersi. Ai Cessati
    Spiriti, gli eroici pedalatori furono festeggiati dalla gente, in attesa dalle cinque del mattino. Nel
    primo pomeriggio sia gli atleti che gli organizzatori e i curiosi e i tifosi si recarono a Porta Pia, per
    rendere il secondo omaggio alla storica breccia. Lì, discorsi del sindaco, delle autorità militari e
    civili, la consegna dei premi. Questa fu la prima, quasi criminale, Roma-Napoli-Roma. Corsa
    nell'anno in cui, per via dell'utopia socialista montante, il capo dei ministri Zanardelli presentava un
    disegno di legge per l'introduzione del divorzio, e in seguito a un accordo con la Francia ci
    prendevamo la Tripolitania e la Cirenaica. Una trentina d'anni dopo, il patron della corsa, Nino Ilari,
    così avrebbe rivissuto la fantastica esperienza:
    Data memorabile davvero, poiché quel tentativo romano di avvicinamento alle grandi competizioni
    internazionali doveva, poi, trasportare la Roma-Napoli-Roma all'apogeo della gloria, al classicismo
    vero dello sport ciclistico nazionale. La mattina del 19 settembre 1902, i ricordi ci fanno esultare
    l'ormai vecchio cuore, l'avvocato Vittorio Vinai, dalla base della colonna commemorativa di Porta Pia,
    lanciò, in un breve discorso, il suo saluto augurale ai partenti. Questi, incolonnati, si partirono dalla
    breccia, preceduti dai bersaglieri ciclisti della Caserma Lamarmora e traversarono le vie dell'Urbe,
    sempre tra due file di cittadini, osannanti agli eroi di quei tempi. Non vogliamo attardarci nella
    descrizione di quella prima fatica sportiva. Diremo solo che noi che seguimmo nella «caffettiera»
    messa a disposizione della giuria da Aurelio Fariselli Spallazzi, riccetto allora come riccetto oggi, la
    marcia per la Via Casilina all'andata, per quella Appia al ritorno, rimanemmo entusiasmati
    dall'arditezza dei concorrenti. Dall'arditezza e dalle sofferenze...
    Perché, nel 1902, nessun automobile di Casa si trovava al seguito della corsa. Ognuno faceva per sé e
    Dio pensava per tutti. Al ritorno, il piccolo lotto capitanato dal tedesco-romanescato Ferdinando
    Grammel, per la discesa di Itri si soffermò davanti allo spettacolo di una vigna, le cui viti, piegate sotto
    il peso dei grappoli maturi, chiamavano i ciclisti a una non preventivata vendemmia. E quale
    vendemmia vi venne compiuta! Quell'uva rappresentava per i corridori la manna mandata da Dio agli
    ebrei affamati del deserto, e il saccheggio si verificò. I contadini, accorsi sul posto come i vigili di oggi
    giorno, sbraitarono un po' prima, minacciarono anche, ma allorché da noi furono edotti
    dell'avvenimento straordinario, si calmarono subito ed aizzarono i vandali ad un pasto maggiore. -
    Magnéte, magnéte, fijoli! Questa ve fa buono. Doppo curaréte de chiù! A Roma, ai Cessati Spiriti
    davanti a una folla innumere, tagliò primo la linea del traguardo il tedescone, Grammel, tra
    un'ovazione tale che difficilmente può trovare confronti, oggi, negli arrivi in pista chiusa di corridori
    ammaestrati dall'esperienza, riforniti abbondantemente di macchine, di gomme, di cibarie, durante il
    percorso. E pensate che, in quei tempi, si marciava su macchine leggerissime...! La più leggera, la
    Bianchi, non pesava meno di 19 chili e non esistevano le ruote libere!
    Il Grammel, nella cameretta dell'Osteria dei Cessati Spiriti, oggi scomparsa, durante il massaggio
    rudimentale praticatogli dai militi della Croce Bianca, nel suo linguaggio italo-tedesco ci disse: - Io
    avere vinciuto premio Regina Madre... Dove essere? Io volere vedere! Capite? Allora sì che si
    pensava alla gloria! Il germanico aveva vinto la medaglia d'oro offerta dall'anima buona e grande di
    Margherita di Savoia, e a quel premio solamente pensava.
    Nel 1903 i concorrenti aumentarono a 36, giacché la F&C si sganciò dall'egida UVI e lasciò
    l'iscrizione libera a tutti gli amateurs. Fu istituita la Gran Coppa del Comune di Roma. Mancando
    Gerbi e qualsiasi altro valido routier del nord, la vinse Zedel Spadoni con la sua “Feliciani”
    (meccanica Triumph e gomme Roveda, si specificava sui giornali).
    Nel 1904 la corsa, considerata ormai il great event del ciclismo meridionale, riaprì i battenti
    all'UVI. Il raduno si fece appena fuori Porta Maggiore e la vittoria toccò ad Achille Galadini, anche
    lui della Forza e Coraggio. Galadini era un meccanico romano nato nel 1875, ma con la famiglia
    originaria di Morciano, nel Forlivese; aveva dalla sua una rispettabilissima complessione fisica,
    essendo alto circa uno e ottanta; ma nulla a confronto col gigantesco Thorwald Ellegaard, il
    campione danese dal quale era stato sconfitto in semifinale ai Mondiali per professionisti in pista
    nel 1902 al Velodromo. Come pistard, Achille Galadini era piuttosto famoso in Italia, tanto che da
    una statistica apparsa nel 1903 risultava al quattordicesimo posto per premi vinti (425 lire), alle
    spalle di star come Eros, Momo e Bixio. Egli sfruttò le sue qualità di velocista per superare in volata
    Piero Albini, un lombardo. Albini che poi avrebbe detto a Gianni Brera (Addio, bicicletta, 1964) che
    il suo compagno di fuga l'aveva battuto per la migliore pratica dei luoghi, essendo il numero uno
    della società organizzatrice; dimenticando di specificare di avere perso in volata, per il semplice
    fatto che il suo rivale era un provetto pistard velocista. Inoltre, c'è da notare che il romano corse con
    una Bianchi da passeggio imprestatagli da un amico, in quanto il signor Solani, rappresentate della
    ditta milanese a Roma, s'era rifiutato di consegnargli una bici da competizione. Ma ecco il quadro
    completo della gara riportato da Il Messaggero:
    Molta gente assistette ai Cessati Spiriti, fuori porta S. Giovanni, ieri mattina all'arrivo dei corridori
    della corsa ciclistica nazionale Venti Settembre, indetta dalla Società Forza e Coraggio di Roma.
    V'erano moltissimi velocipedisti appartenenti alle diverse società romane e molte carrozze padronali.
    Per la società banditrice v'erano il direttore della corsa Orfeo Pettinari, il presidente del comitato cav.
    Stacchini, il segretario Odorico Panna e la giuria nelle persone dei signori Telemaco Fabbri e Giulio
    Stefanini. Fu dovuto mettere un cordone per tenere indietro la folla. L'itinerario della corsa era Roma-
    Cassino-Capua-Napoli-Mondragone-Formia-Terracina-Roma: in tutto 460 chilometri da coprirsi pel
    primo in meno che 26 ore e per la validità in 30 ore. Dei 41 iscritti presero parte alla corsa 36 e cioè:
    Nesti - Micci - Jacorossi - Cocozza - Lupi - Giordano - Fortuna - Miglio - Gavedini - Fiori - De Rossi
    - Piacenti - Galadini - De Cecco - Grammel - Gasperini - Mancinelli A. - Albini - Bazzini - Sansoni -
    Grassi - Mossirone - Mottini - Alessandrini - Rissone - Graziosi - Gasperini U. - Pinto - Viganò -
    Lanza - Fidani - Pettinelli - Borgianini - Audax, Marinelli e Iacobini.
    Si ritirarono: Tagliarini - Pinto G. - Valan - Micheli e Precchia.
    Partiti da Roma la mattina del 19 alle 7 da un chilometro fuori porta Maggiore, alle 6 del pomeriggio
    cominciarono a giungere a Napoli e iermattina alle 7 giunse il primo al traguardo dei Cessati Spiriti,
    Achille Galadini della società Forza e Coraggio, coprendo i 460 chilometri in 23 ore, 12 minuti e 4
    secondi.
    2° Albini Pierino del Velo Club di Legnano, in 23 ore 12' e 7'';
    3° Grammel Ferdinando della Velocipedistica Romana in ore 23 e 15';
    4° Piacenti Federico della Forza e Coraggio in 23 ore e 16';
    5° Fiori Costantino della Forza e Coraggio;
    6° Cocozza Guido;
    7° Iacobini Alfredo;
    8° Fortuna Mario;
    9° Bazzini Ernesto di Bologna;
    10° Grassi di Napoli;
    11° Moltini Pompeo;
    12° Rissone Pietro;
    13° Sansoni Enrico;
    14° Marinelli Alberto.
    Quest'ultimo che si mantenne nel tempo massimo prescritto dal regolamento, giunse all'una e 30, tutti
    gli altri rimasero fuori. Alle 2 pom. i ciclisti che avevano preso parte alla corsa si recarono in corteo
    alla breccia di Porta Pia per la patriottica commemorazione. Circa il primo arrivato è da notarsi che
    questo è il secondo anno che la Forza e Coraggio rimane detentrice della coppa del comune di
    Roma.La bicicletta vincitrice montata da Galadini è stata, come in tutte le grandi corse, una "Bianchi";
    quindi nuovi trionfi i quali giustificano sempre più la fama mondiale acquistata da queste biciclette
    impareggiabili per la loro scorrevolezza e resistenza. Le nostre congratulazioni all'intelligente
    fabbricante che forma oggi l'orgoglio dell'industria nazionale. Un encomio anche al solerte
    rappresentante di Roma sig. Solani, che ha saputo così bene far apprezzare i prodotti di questa
    fabbrica.
    Per la sua vittoria Galadini ricevette cento lire in oro, una medaglia “media” in oro massiccio e un
    bastone da passeggio con pomo in argento e madreperla. Nei giorni successivi, la Bianchi s'affrettò
    a far pesare il fatto che il campione avesse trionfato con una bici normale, senza il classico
    manubrio a corna di bue. Stralciamo sempre da Il Messaggero:
    La bicicletta del primo arrivato Galadini era stata a lui prestata gentilmente dal suo amico Forcatura,
    perciò non è speciale da corsa preparata per l'occasione, ma una "Bianchi" di tipo comune e non
    poteva dare prova migliore che durante i 460 chilometri di strada pessima non subì la minima avaria.
    Questa macchina è esposta nelle vetrine del noto negozio Giulio Stefanini in via Nazionale n. 39 e
    forma l'ammirazione del numeroso pubblico che staziona continuamente lì avanti. L'altra bicicletta
    pure "Bianchi" montata da Piacenti, giunto a 3 minuti dal primo, è esposta al negozio Solani in via
    Quattro Fontane n. 114.
    Nel 1905 s'impose Eberardo Pavesi, il campione milanese di cui, nel secondo dopoguerra, Brera
    avrebbe raccolto le memorie nel suo L'avocatt in bicicletta. Pavesi aveva ventuno anni e correva da
    quattro stagioni: fu per lui il primo importante successo. Ottenuto da un “polentone” in una classica
    nata per volgarizzare il ciclismo nel meridione.
    Ma cos'era, in sostanza, la Roma-Napoli-Roma degli anni eroici? Una buona idea ce la fornisce lo
    stesso Pavesi. Nel 1913, sulla rivista Lo Sport Illustrato e a corredo di un parere sulla dodicesima
    edizione appena vinta da Costante Girardengo, rievocò con colorita penna l'avventura del 1905.
    Ricordo: lo Stadio non esisteva ancora e si arrivava su quella famosa strada, davanti all'osteria dei
    Cessati Spiriti. Un posto nudo, deserto e pur tanto ricco di cari ricordi che comunque ancora oggi
    riempiono la nostra anima di entusiasmo sincero. Si era nel 1905. Gerbi, Ganna, Galetti, Albini,
    Massironi, Fortuna, Conti, Modesti, Jacobini, Fidani, Jacorossi, Galadini, Cuniolo, Faravello, io, ecc.,
    nel mattino del 19 settembre si prendeva il via per la quarta Roma-Napoli e ritorno, ben 460 km tutto
    d'un fiato. Non furono pochi quelli che prima di Frosinone furono appiedati da forature. Fra gli altri mi
    sovvengo ancora di Gerbi, che non era in gran giornata, e di Ganna, allora come ora popolarissimo, ma
    affatto ignaro dei segreti della corsa. A Frosinone, dopo la salita che ha visto or sono quindici giorni
    un aspro duello tra Corlaita e Girardengo, io e Albini ci trovammo in testa con alla ruota il Rossi di
    Pavia e, dietro cento metri, Galetti, che più oltre scompariva dopo di essere stato vittima di una
    foratura. Forti dell'insperato vantaggio – erano i tempi in cui si faceva anche l'impossibile pur di
    annullare quel centinaio di metri presi con tanto sforzo - insistemmo energicamente. Albini marciava
    a meraviglia ed io mi sentivo proprio bene. Dopo Cassino anche Rossi doveva lasciarci; e ricordo bene
    che a Napoli io ed Albini, freschi e ben disposti, aiutandoci da buoni amici – uniti maggiormente per
    ragioni di dialetto e interessi di marca – eravamo in gran vantaggio e pieni di speranza pel ritorno. La
    notte si era fatta cupa, minacciosa, e in breve uno scroscio violento d'acqua ci investiva inzuppandoci
    dalla testa ai piedi. Senza parafanghi, senza impermeabili, senza un'anima viva che ci facesse la carità
    di un po' di luce artificiale, procedevamo a tentoni, diguazzando tra il fango, traballando ad ogni colpo
    di pedale e soffermandoci di tanto in tanto, dove la strada tenebrosa accennava a biforcarsi. Verso Itri,
    Albini con un'imprecazione più rabbiosa delle altre innumerevoli, mi avvertiva che aveva bucato. Non
    vi ho detto che si correva allora con gli smontabili; bene, vi dirò che le camere d'aria nascoste nella
    borsetta dell'amico erano inzuppate e impiastricciate di uova, zabaglione, zucchero, cioccolata. Un
    bell'impasto non è vero? E ve n'era di questa dolce miscela un po' dappertutto; e una dose abbondante
    nelle valvole. Da buon camerata mi arrestai e con ogni cura, dopo non pochi sforzi, mi riuscì di
    accendere un pezzo di candela che Albini teneva gelosamente custodita in fondo alla borsetta.
    L'operazione – certamente la più difficile da che corro – principiava così alla tremula e incerta luce di
    un piccolo moccolo, tra il buio fitto tutt'intorno e il sibilo sinistro del vento. Eravamo così fermi, non
    so, da un quarto d'ora circa, quando da lungi, prima indistinto, poi più continuo, indi regolare e
    possente il battito di un motore giungeva sino a noi. La prima impressione – ricordo – fu di sorpresa;
    credevamo d'essere i soli sperduti in quella notte fantastica; e non ricordo se l'apparire di tre ombre
    nella scia luminosa di due potenti fari – quelli dell'unica vettura che faceva servizio – fosse allora più
    importuna che bene accetta. Quello che ricordo fu che l'unica vittima di questa improvvisa apparizione
    fu Albini, perché io, dopo qualche tentennamento, balzai in macchina e mi unii ai tre fantasmi, i quali
    non erano altri se non Alfredo Jacobini di Roma, Carlo Conti di Milano e Modesti di Roma: avversari i
    primi due, e mio compagno d'equipe il terzo. Lasciai Albini e intuii, più che vedere, il suo faccione
    biondo contratto da una smorfia paurosa. Solo, sperduto nella notte tenebrosa, forse con la testa ripiena
    dei racconti foschi dei nonni sulle campagne contro il brigantaggio. Poiché, infatti – così mi raccontò
    dopo – Pierino fu ossessionato, per molte ore di indescrivibile angoscia, dalla paura dei briganti.
    L'acqua, dopo una sosta fugace, aveva ripreso con maggiore violenza: la ghiaia, il fango, le carreggiate
    rendevano spaventosamente penoso il procedere. Io poi – che per la prima volta da che correvo
    transitavo per quella strada – ogni cento metri ero a terra, arrischiando ad ogni istante di finire il mio
    sogno di gloria sotto le ruote della vettura che ci seguiva.
    Come Dio volle giungemmo ad Itri e di comune accordo ci fermammo in una osteria. Mentre Conti e
    Jacobini mutavano maglie e calzoncini con altre procurate dal loro direttore sportivo che seguiva a
    bordo della vettura, io e Modesti avemmo a prestito da un entusiasta amico del romano – che unico
    forse aveva avuto il coraggio di attendere il passaggio – un paio di maglie. Le ricevemmo dal direttore
    dei nostri avversari con tante e così premurose cortesie da far ricordare Virgilio... anche a chi non lo
    conosceva: «Timeo Danaos et dona ferentes». Con una occhiata abbracciai il piccolo manipolo. Dio,
    che quadro! La scarsa luce di qualche fiammella me lo fece apparire quasi come un bozzetto di creta
    simbolizzante la pazzia. Vi erano tutti, tranne uno. - E Conti?... domandai. Mi si disse premurosamente
    che era uscito per una imperiosa necessità, e mi si offrì un altro po' di zabaglione. Perdurando però la
    sua assenza, uscii sulla strada per accertarmi della presenza dell'avversario. Mi si giuocò allora un
    curioso tiro. Per assicurarmi che egli non se ne era andato, il suo direttore lo chiamò ad alta voce,
    come si chiama un compagno che, pur attendendo poco discosto, ci è reso invisibile dal buio fitto. Ad
    ogni grido di “Conti” una voce sonora rispondeva “...onti”. Ci volle un po' prima che mi accorgessi
    che a rispondere pensava l'eco. Vi permetto di ridere. Io allora certamente non risi; non ascoltando altri
    consigli inforcai il mio velocipede e mi buttai alla caccia dell'avversario, che a conti fatti doveva avere
    un quindici o venti minuti di vantaggio. Mi sentivo bene e non disperavo di riagguantarlo; ma dopo
    qualche centinaia di metri, i due cerchi delle ruote picchiavano sul terreno. Due bucature che non mi
    sono spiegate mai... per non voler spiegare troppo bene, mi facevano assistere, piangente, al passaggio
    rumoroso dei compagni di viaggio coi quali ero giunto ad Itri. Il tempo necessario di riparare; poi via e
    sempre sotto l'acqua. Ripresi Modesti e con lui, dopo aver raggiunto e lasciato Jacobini, mi misi alla
    caccia di Conti. A Caserta, precipitandomi al controllo, prima mia cura fu quella di chiedere i minuti di
    vantaggio dell'avversario e vi lascio immaginare la mia meraviglia, quando appresi che nessun
    corridore era fino allora transitato. Sicuro: «a sinistra, tieni sempre lungo il mare!» gli aveva sussurrato
    ad Itri il suo direttore, e Conti seguendo alla lettera le istruzioni era filato diritto a Gaeta, anziché
    prendere per Terracina. Con Modesti, dunque, ripresi la via per Roma. A cinquanta chilometri dalla
    capitale, erano già una ventina i ciclisti che incoraggiavano Modesti; e quando questi buca, si pensa
    bene di pigliarmi per la maglia, affinché attendessi il compagno. E più che si procedeva e più gli amici
    aumentavano, e con questi degli strani esercizi davanti a me, fin troppo artistici. Un onesto, tra tanti
    entusiasti, pensa un po' anche a quella povera anima di Pavesi e m'avverte che alle porte di Roma, se
    sarò ancora col compagno, si penserà a buttarmi semplicemente a gambe all'aria. Forse lo sconosciuto
    esagerava; comunque fu con grande gioia che io mi liberai del compagno appena potei sulle ultime
    salite. Il mio arrivo, la vittoria, il trionfo, dopo tante ore di febbre e di ansie. Ecco il fascino di quella
    che fu la più oscura, tra le più suggestive classiche mai disputate. Ora la “XX Settembre” non è più se
    non una bella e dura prova a due tappe; ambita dai leaders come tante altre corse della laboriosa
    annata. Ma la “Roma-Napoli-Roma” è passata, è morta e non esiste più in tutta la sua orrida bellezza,
    se non nella mente e nei ricordi di chi l'ha intensamente vissuta.
    Dopo il 1907 si parlò di finirla col percorso costruito su una sola tirata. Da due o tre anni si erano
    andate moltiplicando le prove in linea: la Milano-Torino, il Giro di Lombardia, il Giro del
    Piemonte, il Giro di Sicilia, la Milano-Modena, la Milano-Mantova, la Milano-Roma (effettuata
    solo nel 1906: troppe le liti tra le due città per fare di meglio), la Milano-Sanremo, ancora oggi in
    vita e che parte nel 1907. Soprattutto il Giro di Lombardia, corsa autunnale, appariva molto simile
    alla XX Settembre: partenza da Milano, arrivo a Bergamo e ritorno, ma solo 240 i km. La tendenza,
    in effetti, era quella di diminuire il chilometraggio. I professionisti e le case avevano esigenze
    nuove. L'esigenza principale era data dalla pubblicità: assurdo fare transitare i corridori in gran
    velocità a Napoli, col pubblico che non riusciva a vedere bene i campioni né le marche delle bici da
    loro usate; più logico scindere in due tronconi la gara e ripartire, al mattino del 20, con gli atleti
    freschi e riposati, tenendo conto dei distacchi accumulati nella prima frazione.
    L'edizione 1906 fu appannaggio di Carlo Galetti, un milanese di Corsico classe 1882, capitano della
    britannica Rudge e futuro vincitore, con la maglia della Bianchi-Pirelli, dei Giri d'Italia 1910, 1911
    e 1912. Pavesi, il favorito, fu buggerato da una caduta. Caduto da solo però, non per botte, spintoni,
    coliche e chiodi, tutte categorie che rientravano nel catalogo normale della XX Settembre. Gianni
    Brera ne parla nel suo Avocatt, corruscando la bonomia di Pavesi del 1913 con l'irritazione verso i
    meridionali che contraddistingue molte sue prose:
    Non è un buon anno il 1906. Faccio esperienze nuove, ma non vinco una gara. Alla XX Settembre
    vengono tutti (dopo che ho rotto il ghiaccio con i romani). La notte, risalendo, slitto sul fango e finisco
    in un fosso presso Capua. Vince Galetti. Arriva solo, come me, nel primo mattino. Io sono intanato in
    una locanda con altri molti, viandanti o sensali, non so. Estenuato, non sono rimasto molto a pensare
    dopo la caduta. Mi chiudono a dormire in un androne. Al primo sonno, un formicolare orripilante di
    cimici. M'alzo rabbrividendo, corro a picchiare, che m'aprano. I compagni di camera, berciando in
    dialetti ostili, mi tirano addosso, per lo meno, scarpe. Debbo aspettare l'alba grattandomi, stroncato dal
    ribrezzo. Giuro che non verrò mai più da queste parti. Ma certe sensazioni, se restassero, porrebbero
    fine al mondo. Invece passano anche le punture delle cimici, al pari dei giuramenti.
    Nel 1907 fu la volta di Gerbi, il «diavolo rosso», di mostrare ai romani e ai napoletani che il più forte
    era lui. Chiuse la prova in poco meno di 21 ore. Ripeté l'impresa nel 1908 e nel 1909, distribuendo
    perfettamente le energie: poco sopra le 17 ore il complessivo e circa 8 ore e mezza a tappa.
    L'astigiano era in quegli anni tra i frequentatori del Tour, assieme a Ganna, Galetti, Pavesi,
    Rossignoli, Canepari, Chiodi e Cuniolo. Tutti ragazzi dell'area lombarda-piemontese, con qualche
    incursione ligure o emiliana. Scendendo a Roma per ordini di scuderia, loro dominavano: superiori
    per tattica di gara, esperienza, modernità di allenamenti, aiuto da parte della Casa, sovente per la
    qualità della macchina che montavano. E questo nonostante le seminagioni di chiodi dei tifosi
    laziali e campani. Motivo minore (quello maggiore individuabile nella scarsa importanza della gara
    rispetto alle tante classiche in Francia e in Belgio) per cui non si vedevano ai Cessati Spiriti i
    fuoriclasse d'oltr'Alpe: Garrigou, Alavoin, Georget, Lapize, Garin, Mazan, Van Houwaert,
    Trousselier e compagnia bella. Alcuni di costoro, ad esempio Garrigou vincitore del Giro di
    Lombardia 1907, partecipavano alle prove al nord. Le loro scelte seguivano logiche di mercato: il
    bacino dei clienti italiani era forte al settentrione, e tutte le case italiane concorrenti delle francesi
    avevano le fabbriche sopra la Pianura Padana. sia dei telai che delle gomme e delle meccaniche
    (Stucchi, Maino, Bianchi, Dei, Atala, Legnano, Otav, Fiat, Pirelli). A Roma le attrezzature per il
    ciclismo erano importate da Torino o da Milano, altrimenti ci si doveva rivolgere alle più costose
    marche francesi e inglesi in vendita nei negozi più prestigiosi: da Solani o alle sorelle Adamoli in
    via del Plebiscito. Fabbrica romana di una certa notorietà, ma ad un livello artigianale con pochi
    dipendenti e assolutamente non industriale, c'era solo quella dei fratelli Bergami a piazza d'Italia.
    Concluso il trittico del “diavolo rosso”, nel 1910 vinse Mario Bruschera, un piemontese. Precedette
    al traguardo il varesino Luigi Ganna, l'alfiere dell'Atala-Dunlop che due anni avanti era stato il
    primo italiano a indossare la maglia rosa al Tour, e il minuscolo Galetti. L'anno prima, Gerbi aveva
    vinto davanti a Pavesi e al torinese Pietro Aymo; l'anno prima ancora, gli erano rimasti dietro
    Chiodi e Ganna, due lombardi. Un dominio polentone che non lasciava spazi d'inserimento ai
    corridori terroni. Nel 1911, per l'edizione del centenario dell'Unità d'Italia, lo strapotere nordista
    generò screzi tra il giornale che patrocinava molte delle gare ciclistiche – La Gazzetta dello Sport -
    e il foglio capitolino che s'era preso la briga di aiutare nell'organizzazione della XX Settembre: Il
    Messaggero. Per la “rosea” patrocinare corse su strada era una questione vitale, pavesata com'era
    di manchettes pubblicitarie legate all'industria della ruota e della gomma; non a caso, due anni
    prima aveva messo in piedi il Giro d'Italia, facendolo transitare per Roma dopo la svolta a Napoli.
    Roma era un terreno di conquista tra i più appetiti, in materia di vendita di bici e materiali accessori.
    Per Il Messaggero – quotidiano politico di sfumatura socialista – il punto focale stava nel
    guadagnare lettori e popolarità sfruttando il boom in progressione del ciclismo, e in più tenere alto il
    prestigio cittadino in un anno così importante. La querelle è sintetizzata in un articolo pubblicato
    sulla rivista torinese La Stampa Sportiva. Esso ci fa capire come il problema del gap industriale tra
    Milano e Roma, motivo della disparità di risultati, della «tirannia» del nord sul centro-sud in merito
    alle competizioni sportive, fosse chiaramente avvertito all'epoca:
    Anche della XX Settembre a parlarne ora, a pochi giorni di distanza, mi par quasi di vivere la parabola
    di Lazzaro fuoriuscente dalla tomba quatriduana al richiamo dolce del Nazareno. Del resto,
    consoliamoci che di corse ciclistiche molto probabilmente fra non molto non dovremo scrivere più.
    Infatti è opinione molto diffusa fra i competenti (e in tal senso anche mi parlava tempo fa un grande
    campione italiano) che esse volgono non lentamente e inesorabilmente al loro definitivo tramonto. Le
    Case non si sentono più di sostenere le enormi spese che ora sostengono per quel po' di réclame che
    una eventuale vittoria loro frutta, ed anche nel pubblico si vanno notando certi segni non dubbi di
    stanchezza. Molte Case francesi non fanno già correre più. Consoliamoci dunque. Ma la XX
    Settembre si è corsa per la decima volta. La XX Settembre si correva quando in Italia appena si
    parlava di ciclismo. Ed è stata interessantissima. L'interesse è cominciato molto tempo prima che
    venisse disputata. Infatti essa ha avuto l'onore di dar luogo a una polemichetta di carattere politicosentimentale
    svoltasi fra un distintissimo giornale romano, che aveva steso sulla derelitta corsa le ali
    protettrici della sua popolarità, e un giornale sportivo milanese – dirò così – color dell'alba. Come
    precisamente si sia svolta questa polemica io fortunatamente ignoro... pare però, a quanto mi si
    racconta, che il giornale color dell'alba non vedesse di buon occhio, non si sa per quale ragione, o
    almeno per amor di patria si finge di non saperlo, lo svolgersi di detta gare che pare per il passato
    aveva avuto tutta la sua incondizionata simpatia. Pare anche che nel fervore della polemica il giornale
    del colore di cui sopra, sia giunto a un punto di sdegno tale da qualificare la XX Settembre, non so se
    per malanimo o per sublime incoscienza, «una delle solite corsette domenicali», mentre neanche a
    farlo apposta, la XX Settembre si è disputata nei giorni di martedì e mercoledì, cioè in due
    volgarissimi giorni feriali. (…)
    «Corsetta domenicale». Così è stata definita l'unica, badate bene, l'unica competizione sportiva
    italiana che racchiuda un nobilissimo significato patriottico. Nobilissima significazione patriottica
    che, ad evitare una gratuita patente di ingenuità, risparmiamo di illustrare anche
    sommariamente ai nostri spregiudicati sprezzatori ambrosiani. L'omaggio alla colonna di
    Porta Pia, prima della partenza? Qu'est-ce que c'est que ça? L'Italia ce l'hanno fatta i nostri
    nonni: noi non abbiamo altra funzione storica che quella di fare gli italiani. Funzione meno
    pericolosa e direi anche più piacevole. «Corsetta domenicale» nel giorno della fiera mandamentale
    d razze equine, nevvero? Andate là, che il governo di Mery edl Val sarà contento di voi. Del resto non
    è detto che i giornalisti sportivi debbano conoscere la storia. Basta sappiano talvolta maneggiare bene
    o male le armi viete della denigrazione. Così si è detto dell'unica corsa italiana che mascheri
    l'affarismo che le dà vita sotto l'usbergo di una data gloriosa. E qui si pone, mio malgrado, l'eterna
    questione della pretesa inerzia meridionale (…) Quello che manca all'Italia meridionale è l'industria,
    cioè il denaro. La passione sportiva è gigante, ma la tasca è colore dei prati a primavera. Mancano
    Case industriali che crescano le migliori energie ai loro interessi e se le disputino per le loro
    competizioni finanziarie, mancano uomini che possano accontentarsi di trarre dallo sport la
    risoluzione del quotidiano, esasperante problema della vita. Del resto c'è tutto, credete a me. (…) Così
    succede che pochissimi possano permettersi il lusso di occuparsi di sport o per lo meno di organizzare
    gare sportive con quella solerzia e munificenza che distingue altre razze ed altre stirpi del comune
    ceppo italico. Perché, e spero che su questo punto siamo d'accordo, senza denari non si fa niente. E da
    noi disgraziatamente quei pochi che ci sono in giro sono in mano a gente che tutto forse saprebbe
    fuorché dire una parola di competenza in fatto di sport. Invece in Alta Italia col grande sviluppo
    dell'industria ciclistica, automobilistica e similari si è creato un ambiente di generosi industriali cui
    non manca né la competenza né l'entusiasmo, né tanto meno l'oro che per definizione musicale è del
    mondo signor. E mai signoria fu esercitata con tanta tirannia.
    La tirannia aveva il suo Mercurio nella réclame, anima di tutte le corse ciclistiche. Anche se sarebbe
    errato credere che il successo nelle competizioni fosse l'unico modo per infilarsi nelle tasche degli
    acquirenti. Come notava Vittorio Varale, in un articolo su Lo Sport Illustrato del 1915, il motto
    Atala ha caldo e si fa vento, comparso nel 1909, aveva fatto furore ed era servito alla ditta «quasi
    come una vittoria in una grande corsa». Comunque, a dare una ventata d'aria fresca alla XX
    Settembre giunse nel 1911 il trionfo di Dario Beni. Questi fu il primo idolo sportivo della folla
    romana, il primo ciclista capace di ribaltare gambe all'aria i grimpeurs nordisti e farsi scritturare da
    una squadra di professionisti: la Bianchi. Classe 1889, a vent'anni era partito con venti soldi in tasca
    e aveva vinto due tappe, la prima e l'ultima, del Giro d'Italia d'apertura; in tribuna, l'aveva
    applaudito niente meno che Guglielmo Marconi. Quindi s'era aggiudicato il campionato tricolore
    su strada, corsa in linea da tre stagioni appannaggio dall'asso piemontese Giovanni Cuniolo. Il 1911
    fu il suo anno d'oro: vinse anche una tappa del Giro d'Italia e la Corsa delle Tre Capitali, prova a
    tappe Torino-Firenze-Roma molto pubblicizzata e mai più ripetuta. Il problema col ragazzo del
    Tiburtino stava nel fatto che, se te lo portavi in volata dopo un paio di centinaia di polverosi
    chilometri, eri fritto: nella Tre Capitali, entrando nell'appena costruito Stadio Nazionale ai Parioli,
    fece secco Henry Pelissier, uno dei re francesi della route. Il 20 settembre 1911, Beni tagliò da
    vincitore il traguardo sulla pista del Motovelodromo Appio, innalzato l'estate avanti per dare alla
    città un posto dove rullare le gare dei pistards. L'ampio viale militare del vicino campo d'aviazione
    a Centocelle aveva consentito, per nove edizioni della corsa, d'approntare zone d'arrivo comode al
    pubblico col punto d'appoggio all'osteria dei Cessati Spiriti. Ma ora, grazie alla consolare Appia
    Nuova, il motovelodromo si costituiva come un punto di riferimento per il ciclismo agonistico su
    strada e su pista; l'Appio rimetteva Roma alla pari con Milano, Torino, Bologna e Firenze. Non pari
    fu l'organizzazione della gara del centenario dell'Unità d'Italia, però, con deficienze nei cartelli di
    segnalazione che portarono ben pochi corridori ad imboccare a Napoli il vialone di Casoria. Altri
    arrivarono da direzioni impreviste, e perfino da Poggioreale: quelli che di nascosto avevano preso il
    treno!
    Beni si ripeté nel 1912, concludendo una gara tornata “in linea” ma invertita: l'andata lungo la via
    Appia e il ritorno sulla Casilina. Arrivo allo Stadio Nazionale, in quanto l'Appio era off-limits per i
    costi di gestione non sopportabili dai privati che l'avevano arditamente edificato. Perché tanti
    mutamenti? Era successo che la Forza e Coraggio per un dissidio aveva abbandonato l’UVI, e ne
    era seguita una crisi che aveva portato al temporaneo scioglimento del club. A quel punto,
    l'avvocato Felice Tonetti, patron dell'Audace e velocipedista dei tempi del Velodromo Salario,
    aveva sostituito Nino Ilari e organizzato lui la corsa, ripristinando la formula della tappa unica
    aperta ai licenziati professionisti UVI. L'avvocato Tonetti - un omaccione con una gran barba che
    durante l'era fascista sarebbe diventato un alto dirigente del CONI - la accoppiò ad una gara di
    dilettanti da Roma a Velletri. Nel suo sforzo organizzativo ebbe il sostegno de Il Messaggero e di
    un altro foglio da poco nato, L'Italia Sportiva. Il Messaggero mise in palio una coppa d’argento del
    valore di cinquemila lire, destinata alla società d'appartenenza del primo arrivato. Finì che andò ad
    arricchire la bacheca dell’ACS, mercé la vittoria di Beni arruolato nella polisportiva biancorossa. I
    piazzamenti di Gino Brizzi e di altri audaciani garantirono la Targa Nelli (a squadre), mentre
    Umberto Della Seta vinse, tra i dilettanti, la Coppa dell’Industria della Roma-Velletri di 200 km.
    Dobbiamo dire che l'Audace, la Cristoforo Colombo, lo Sporting, la Forza e Coraggio e altre società
    capitoline allestirono, in quegli anni a ridosso della Grande Guerra, molte gare in linea di nuovo
    conio. Citiamo la Roma-Civitavecchia, la Roma-Frascati-Roma, la Roma-Soriano, la Roma-
    Fiumicino-Roma, la Roma-Anzio-Nettuno, la Corsa Nazionale Principe di Piemonte, il Bracciale
    Romano. E fu tentata persino, nel 1913, l'organizzazione di una Parigi-Roma, col concorso dei
    giornali L'Auto e La Gazzetta dello Sport; progetto ambizioso poi annullato per l'esitazione di
    alcune equipes, l'ostilità di altri giornali e i problemi logistici che avrebbe comportato. Diversi
    ciclisti romani partecipavano ai Giri d'Italia in qualità di “isolati”, cioè free-lance in cerca d'ingaggi.
    In generale, l'interesse della gente che abitava il centro-meridione per le manifestazioni agonistiche
    su strada era molto aumentato rispetto al principio del secolo. La XX Settembre - regina delle corse
    ciclistiche a sud di Firenze - aveva giocato la sua parte nell'incremento di questo interesse.
    Nel 1912 essa partì dall'Acqua Santa, sulla via Appia, alle undici di sera. All'Acqua Santa c'era il
    campo del Golf Club, che poteva fornire un appoggio logistico; accanto vi passava la Ferrovia
    Roma-Formia-Napoli. Il manipolo di «pro» imboccò la direzione di Albano in un caos d'automobili
    a manovella, suivers ingobbiti sui manubri e ammiratori a piedi che volevano a tutti i costi toccare e
    scambiare quattro chiacchiere con Dario Beni. Le fasi iniziali, nella cronaca del reporter de L'Italia
    Sportiva, rendono bene il polso della situazione e soprattutto la partecipazione della gente:
    Alle 11,12 finalmente dall'Acqua Santa, la Giuria, che è col cav. Pegazzani sull'automobile che
    seguirà la gara, dà il via al piccolo, ma forte manipolo d concorrenti. In mezzo al buio fittissimo della
    notte si sono slanciati sulla cattiva strada acciottolata che mena ad Albano: sono in fila indiana e si
    scorgono nel netto raggio di una luce proiettata dai fari delle automobili, nel grande buio della notte.
    E' in testa Beni (…) In mezzo al silenzio suggestivo della immensità dell'Agro addormentato, rotto
    solo dal rumore degli ingranaggi delle macchine che sbalzano sulla ineguaglianza della strada, il
    gruppo sempre condotto ad andatura veloce si allontana verso la salita delle Frattocchie, ove il passo
    vien maggiormente forzato. I biancoelesti [il riferimento è a Beni e Santhia, capitani della Bianchi,
    ndA] hanno intenzione di liberarsi il più presto possibile degli avversari, poiché è ora Santhia che
    conduce per la lunga salita e i più deboli cominciano già a dar segni di stanchezza. Ad Albano
    abbiamo un primo tentativo di Beni per staccare il gruppo. Egli, che trovavasi in breve vantaggio,
    fugge con Brizzi. Santhia e gli altri che han perduto contatto trovano difficoltà nella folla, che con
    lampioncini e bengala è rimasta ad attendere i corridori fino a questa tarda ora e li saluta con grandi
    evviva. Il saluto è poi ripetuto nelle più svariate maniere con luminarie e fuochi d'artificio fino alle
    ultime ore della notte, attraverso tutti i paesi che ci è occorso traversare, per tutto il percorso dove si è
    fatto a gara ad incoraggiare tutti indistintamente i concorrenti. (…) I biancocelesti forzano per il ben
    noto viale alberato che traversa Ariccia e Genzano festanti e proseguono per la nuova strada che
    conduce a Velletri, favoriti nella loro fuga dai potenti fari della loro vettura di rifornimento. Indietro
    delle scene tragicomiche avvengono fra i ritardatari che, nel buio più completo, sotto la cappa degli
    alberi s'investono reciprocamente, scartano nelle rotaie del tram e procedono con la velocità
    spaventosa di circa sedici chilometri l'ora! Il solo Pifferi, più audace e fortunato, insegue veramente
    schivando tutte le difficoltà, e gradatamente va riaccostandosi ai primi, che sorpassato Velletri si sono
    precipitati per le montagne russe che precedono Cisterna. Dopo questa piccola cittadina si inizia la
    lunga e snervante fatica della «fettuccia» di Terracina...
    Beni transitò a Napoli alle sette e mezza del mattino. Vinse sul traguardo di Roma col tempo di 18
    ore e 20 minuti, stracciando il record di Gerbi del 1907. Entrò da solo nello Stadio precedendo
    Giuseppe Santhia, uno dei pochi nordisti scesi a disputare la classica corsa nazionale riproposta
    nella sua temibile formula notturna. Durante la gara, i due, in fuga collaborativa, avevano
    minacciato d'abbandonare per ragioni di vitto: il romano voleva dal signor Remo Vigorelli, che
    guidava l'auto della Bianchi, delle banane, ma quello non ce le aveva; teneva polli, pasticcio di
    pasta, costolette, pesche, acqua minerale ma non le preziose fonti di potassio. Santhia pretendeva
    invece del salame, e Vigorelli addirittura si fermò a una locanda, prima d'arrivare a Napoli, per
    comprare l'energetico alimento. Il duello, a parte i dispettosi rallentamenti dei due campioni a causa
    delle banane e del salame, fu straordinario. L'Italia Sportiva scrisse del divo Beni:
    Se, dunque, una media di più che 26 chilometri l'ora è stata facilmente tenuta dal Campione Romano,
    in questa gara dove la competizione certo non è stata vivissima, sarebbe stata sorpassata qualora
    avversari degni di lui gli fossero stati opposti. Santhia ha dato prova di eccezionale valentia, ripetendo
    a quindici giorni dalla Seicento Chilometri uno sforzo quasi ugualmente titanico ed arrivando a
    pochissimo distacco da Beni, dopoché un incidente gli toglieva l'onore di giungere in volata con il
    beniamino delle folle. Beni, infatti, è divenuto per le folle meridionali quello che un giorno fu Gerbi
    per le settentrionali: ovunque egli era atteso, incoraggiato, applaudito!
    Nel 1913 Il Messaggero prese decisamente in mano la corsa, giacché la Forza e Coraggio aveva
    ottenuto dall'UVI il placet per organizzarla ma era obiettivamente troppo debole per farlo bene. Il
    Messaggero sistemò le cose in modo da imporre un cambiamento dell'itinerario: non più una gara
    laziale-campana, bensì laziale-abruzzese-umbra in due frazioni, e il traguardo della prima tappa
    posto a Rieti. Al di là delle parole di comodo addotte dai patrocinatori, il motivo del cambiamento
    appariva intuibile: Napoli per il più venduto quotidiano capitolino non era una piazza appetibile
    quanto gli Abruzzi e l'Umbria, aree di penetrazione nuove, mercati da conquistare. A Napoli era
    sempre stato Il Mattino a compiere i passi necessari per dare un minimo di organizzazione locale
    alla corsa. Antonio Scarfoglio delegava della cosa il noto sportsman Alessandro Joima. Fu ovvio
    che i napoletani non accettarono la novità, rinfacciando ai romani la simpatia con la quale avevano
    sempre accolto la manifestazione e i suoi protagonisti. Ma la dodicesima edizione della XX
    Settembre, dando un bel calcio alla tradizione, ebbe luogo senza Napoli. Il 19 settembre, fatto il
    raduno a Porta S. Giovanni, alle cinque della sera partirono in 27, da Porta Furba e per mano dello
    starter Raffaele Garinei, giornalista sportivo de Il Messaggero. Tra i corridori iscritti, a contendere
    la vittoria a Beni quasi tutti i più forti stradisti nordisti: Ganna, Gerbi, Galetti, Santhia, Lombardi,
    Corlaita, Cervi, Pifferi, Pavesi, Albini, Sivocci, Calzolari e l'ultima rivelazione in assoluto: il
    ventenne Costante Girardengo. I corridori imboccarono la via Tuscolana e toccarono Frascati,
    Colonna, Frosinone, Cassino, svoltarono a nordest per Sora ed entrarono negli Abruzzi tenendo
    d'occhio il fiume Liri. Passata Avezzano, dalla via Tiburtina presero la Salaria e al traguardo di
    Rieti i migliori arrivarono insieme; anche Beni, che dalle parti di Avezzano aveva usufruito del
    rimorchio di una motocicletta per rientrare nel gruppo di testa. Ripartirono alle sei meno un quarto
    del 20 da Porta Cintia, a sole già alto e con 45' di ritardo sul programma; se la pigliavano comoda, e
    così era stato alla partenza da Roma, tramontati i tempi della puntualità per la trafila burocratica:
    firma dei fogli, incolonnamento, appello. Ai «pro», che erano ormai delle vedettes, piaceva dormire
    un po' di più, e nessuno dei commissari di gara osava contraddirli. Inoltre, nel tempo che
    mangiavano la loro bella colazione, in piazza aumentava la folla, e la cosa cascava a fagiolo per gli
    affari delle case impegnate. Questi dettagli ci dicono dei cambiamenti dalla prima XX Settembre, a
    parte gli itinerari diversi; e del fatto che già sui giornali si parlava delle classiche ciclistiche come
    di eventi che avevano a che vedere più coll'industria del ciclo e della gomma, la
    commercializzazione di un bene di consumo popolare, che con lo sport puro e semplice.
    Da Rieti a Roma, il gruppo dei superstiti, una ventina, fece la discesa delle Cascate delle Marmore,
    passò per Terni e Perugia, dove Girardengo giunse da solo avendo fatto il vuoto sulla salita della
    Somma, transitò a Civita Castellana, a Rignano lungo la via Flaminia fiancheggiando il Monte
    Soratte, e poi a Morlupo, a Castelnuovo di Porto e a Prima Porta. Fu una fiacca caccia, ad opera di
    Ganna, Galetti, Beni e Gerbi. Girardengo entrò nello Stadio Nazionale dei Parioli in perfetta
    solitudine. Tagliò il traguardo alle 17 e 17, coprendo i 305 km in 11 ore e 32 minuti alla media di
    26,514 kmh. Dopo mezzora apparve il secondo, Giosuè Lombardi, e subito a seguire un quartetto
    formato da Ganna, Galetti, Calzolari e Sivocci. La XX Settembre del 1913 fu una delle prime
    grandi vittorie per quello che, un giorno, sarebbe rimasto - in virtù delle sue 126 vittorie su strada e
    965 su pista - nella leggenda dello sport azzurro come «il campionissimo». Nel 1913 il fuoriclasse
    di Novi Ligure guadagnava uno stipendio di 180 lire al mese, come un ministro, pur essendo semi
    analfabeta.
    L'anno dopo Dario Beni si aggiudicò l'ultima sua XX Settembre, in un'edizione imperniata su di una
    sola tappa e con l'arrivo di mezzo a Napoli. Al traguardo di Roma precedette il lissonese Ugo
    Agostoni, vincitore della Milano-Sanremo, e i conterranei Pifferi, Michelangeli e Brizzi. Per onor di
    cronaca, bisogna dire che la corsa fu falsata da un atto di vandalismo di alcuni tifosi che, al ritorno,
    sulla strada in discesa presso Velletri sparsero manciate di chiodi subito dopo il passaggio dei
    corridori romani, provocando le indignate proteste di vari campioni forestieri. Così, col “piff” dei
    tubolari di piemontesi, liguri, emiliani, veneti e lombardi che s'afflosciavano, calò il sipario
    sull'epoca pionieristica della gara ciclistica più famosa del meridione. Lo scoppio della prima guerra
    mondiale funse da cesura per la metamorfosi della classica gran fondo, che sarebbe rinata altre due
    volte e sotto sembianze diverse. Beni, dal canto suo, s'ammogliò, sfornò una nidiata di bambini e
    mise a frutto i sudati guadagni aprendo un negozio di articoli sportivi dapprima a via Merulana,
    come rappresentante di cicli e motocicli Peugeot, e poi, nel dopoguerra, a Santa Maria Maggiore;
    negozio che, per qualche tempo, funzionò da ricevitoria delle scommesse sui vincitori del Giro
    d'Italia. A già... le scommesse: una caratteristica anche della XX Settembre, con modalità
    clandestina e non sottoposta a regimi fiscali di sorta.
    Gli anni dei campioni (1918-1934)
    Ci siamo dilungati nella descrizione delle prime tredici edizioni e c'è un motivo: l'epopea della XX
    Settembre in gran parte sta lì. Il suo fascino, il suo mito. Come nomi, tuttavia, le quattordici edizioni
    tra le due guerre e le dodici del periodo repubblicano non sono da meno. Hanno entrambi, questi
    periodi, parterres des rois notevoli: Girardengo, Binda, Belloni, Guerra, Robic, Kubler, Magni,
    Ockers, Bobet. E anche Fausto Coppi e Gino Bartali mai vincitori finali ma spesso protagonisti.
    Nel 1918, a guerra non ancora conclusa, la quindicesima edizione trovò l'ostacolo della Gazzetta
    dello Sport, che per il 20-22 settembre aveva allestito una Milano-Roma in due tappe, via Bologna,
    rastrellando i migliori professionisti. Ma Il Messaggero e il Fascio delle Società Sportive Romane,
    un nuovo ente che comprendeva la F&C, reagirono al colpo basso. Si appoggiarono ad Augusto
    Ciuffelli, ministro dell'Industria, del Commercio e del Lavoro nel governo Orlando, per organizzare
    ugualmente la corsa. Il perugino Ciuffelli mise in palio una coppa d'argento e l'itinerario scelto lo
    gratificò del passaggio dei corridori sotto le finestre del suo palazzo nobiliare a Todi. La gara si
    articolò su due tappe: da Roma a Perugia (190 km), via Terni, e da Perugia a Roma, passando per
    Viterbo e lungo la Flaminia (211 km). Al mattino del 19 settembre 1918 partirono da Ponte Milvio
    in 38, di cui appena 9 i professionisti, tutti “isolati” che non appartenevano alle équipes delle case
    industriali. Alcuni fra loro avevano dovuto chiedere un permesso speciale per lasciare i fronti del
    Friuli e delle Venezie e prendere parte alla prova. L'organizzazione si avvalse dell'aiuto della
    Unione Ciclistica Ternana e della polisportiva Braccio Fortebraccio di Perugia. La Croce Rossa
    fornì un servizio e la cantante lirica Luisa Tetrazzini donò una coppa del valore di mille lire. Al
    traguardo di Perugia giunse primo il milanese Giovanni Santagostino, in 15 ore e 21 minuti, seguito
    dagli audaciani Marzio Germoni e Ferdinando Di Gennaro. Ma nel ritorno, appena passata Città
    della Pieve, Santagostino si ritirò a causa di una colica. Ne approfittò il romano Giuseppe Pifferi
    che, recuperato lo svantaggio accumulato nella prima frazione, in 7 ore e 18 minuti transitò
    vincitore al traguardo dei Cessati Spiriti, precedendo Germoni, il milanese Giovanni Cocchi e il
    suo conterraneo Alfredo Jacobini. Due giorni dopo, lo Stadio Nazionale accoglieva Carlo Galetti
    trionfatore alla Milano-Roma. L'edizione 1918 fu chiaramente boicottata dalla stampa e
    dall'industria ciclistica del settentrione, che non le diede alcuna rilevanza. Ma il sabotaggio, seppure
    bene orchestrato, non fu sufficiente per ucciderla.
    Nel 1919 la XX Settembre riprese il percorso classico diviso in due frazioni: 254 km da Roma a
    Napoli per la via Casilina e 212 da Napoli a Roma lungo la via Appia. La gara ritrovò la sua ragion
    d'essere grazie all'appoggio della Federazione Ciclistica e alla nuova formula da questa escogitata
    per l'effettuazione del campionato italiano su strada, articolato su sette prove: Milano-Sanremo (6
    aprile), Milano-Torino (13 aprile), Giro del Piemonte (4 maggio), Giro dell'Emilia (31 agosto), XX
    Settembre (19-20 settembre), Milano-Modena (5 ottobre) e Giro di Lombardia (2 novembre). Corse
    quasi tutte appannaggio di Costante Girardengo, dominatore del Giro d'Italia e che stava vivendo il
    periodo fulgente della sua carriera. “Gira” non prese parte, tuttavia, alla classica del meridione, che
    andò al milanese Alfredo Sivocci davanti a due veterani pure del nord: Giuseppe Azzini e Giosuè
    Lombardi. Lo strapotere dell'«omino di Novi» era tale che egli si concedeva il lusso di conquistare
    la maglia tricolore evitando di correre tutte e sette le prove; il regolamento a punti, infatti,
    permetteva di fare dei calcoli. Nel 1920 Girardengo non partecipò alla XX Settembre e al Giro di
    Lombardia ma vinse lo stesso il campionato, seppure di un solo punto su Gaetano Belloni. La
    sedicesima edizione fu la più povera per qualità di tutta la storia della classica. Non mancò di
    evidenziarlo La Gazzetta dello Sport in una succinta cronaca piazzata in prima pagina:
    La XX Settembre si è corsa, malgrado l'assenza degli attesi e dei loro coequipiers, ma si è ridotta a una
    competizione di isolati, priva di importanza e soprattutto priva di combattività. Non è il caso di rilevare
    i commenti romani violentissimi e battaglieri, che vanno da uno sfogo del Messaggero, che minaccia i
    divi del pedale del settentrione di accoglienze clamorose qualora osino venire in seguito a Roma, alle
    conversazioni degli sportivi romani per la costituzione di una federazione dell'Italia centrale che
    comprenda tutti gli sports, per liberare lo sport romano dai legami che lo stringono necessariamente al
    settentrione. Non crediamo che queste minacce potranno divenire reali, poiché passato il momento di
    dispetto il buon senso finirà per prevalere. La cronaca della corsa è presto fatta. Su dieci iscritti solo
    otto sono partiti. Sulla salita delle Frattocchie, a pochi chilometri da Roma, tre concorrenti hanno dato
    battaglia e sono fuggiti rapidamente distaccando gli altri: Petiva, Marchi e Bordin. Nessuno ha saputo
    riprendere il comando dell'inseguimento. Presso Cisterna, Petiva e Bordin urtano in un masso e
    cadono. Emilio Petiva deve arrestarsi per nove minuti per riparare. Marchi invece rimonta in sella e va
    sicuro verso il successo. Egli arriva infatti a Capua con 25 minuti di vantaggio. Questo aumenta
    sempre di più fin sul traguardo. Ecco l'ordine dia arrivo: 1° Marchi Angelo dell'Itala di Firenze alle
    17.10'16”, compiendo i km 408,600 in ore 17.16'. 2° Bordin Lauro alle 18.30'. 3° De Biase Nicola
    fuori tempo massimo.
    Fu proprio Girardengo, nel 1921, a risollevare definitivamente la corsa. Insidiato da Giovanni
    Brunero e da Federico Gay, che gli avevano strappato due delle precedenti prove, il portacolori
    della Stucchi si allineò per la seconda volta alla partenza di una XX Settembre, diminuita però nel
    suo impegno: appena 320 chilometri in una sola giornata. L'itinerario seguì le vie Appia, Tiburtina e
    Tiburtina Valeria, lungo la boscosa valle dell'Aniene: Roma, Albano, Ariccia, Genzano, Velletri,
    Artena, Valmontone, Ferentino, Frosinone, Ceprano, Arce, Isola Liri, Sora, Balsorano, Civitella
    Roveto, Capistrello, Avezzano, Scurcola, Tagliacozzo, Colli di Monte Bove, Carsoli, Arsoli,
    Vicovaro, Tivoli, Roma. Ogni cittadina aveva un suo premio di traguardo: un bell'incentivo per i
    corridori, tutti professionisti. Una quarantina gli iscritti, compresi gli isolati e gli juniores, e tra loro
    i più forti: Corlaita, Azzini, Beni, Belloni, Gremo, Gay, Santhia, Brunero, Bartolomeo Aymo,
    Sivocci, Arduino, Calzolari. E' interessante rilevare la geografia dei partecipanti: un terzo romani e
    due terzi del nord, in buona parte delle provincie di Torino e Milano. Girardengo, come al solito,
    mise d'accordo il reggimento. La partenza fu data dal cronometrista ufficiale, Nino Ilari, alle cinque
    e un quarto del mattino del 20 settembre dai Cessati Spiriti, sul vialone antistante il motovelodromo
    mezzo diroccato. Sempre per l'organizzazione de Il Messaggero, che metteva in palio una grande
    coppa, e il contributo di uomini della Forza e Coraggio. Beni, tornato difensore dello Sporting Club,
    fu il primo a porre la firma sul foglio di partenza, ma gli anni erano passati e non poteva più essere
    un protagonista. Sei erano le auto al seguito, colme dei cosiddetti soigneurs, i tecnici per gli aiuti.
    Quella della giuria, con a bordo il commissario di gara, Vitanzi, e il commissario dell'UVI, Cesare
    Vittorio, più le macchine delle case in lizza per il primato nazionale: Bianchi, Pirelli, Stucchi,
    Dunlop e Legnano. Tra i giornalisti spiccano i nomi di Ezio Spositi, poi dirigente di primo piano
    della federazione ciclistica, di Attilio Morresi, storico capo della redazione sportiva de Il
    Messaggero, e di Romolo del Papa, il più importante fotografo sportivo di Roma degli anni tra le
    due guerre.
    La corsa scivolò monotona fino ad Avezzano, dove transitarono ingruppati in ventidue. Sulla salita
    di Monte Bove, a quota 1.200 metri e a 77 km da Roma, avvenne la selezione. I grimpeurs più
    accreditati se ne andarono: Aymo, Brunero, Belloni, Girardengo, Gay, Arduino, Azzini e Gremo. La
    discesa verso Tivoli fu velocissima e non mutò la situazione. Poco dopo le sei, con un ritardo di
    oltre un'ora causato dalle strade polverose e malmesse, definite dalla stampa nordista «le infami
    strade del Lazio», i corridori giunsero in vista dello Stadio Nazionale, che era stato non da molto
    attrezzato di una semplice pista in cemento per le riunioni col totalizzatore dei pistards. Un urlo
    altissimo accolse l'annuncio del loro prossimo arrivo, emesso verso il cielo da una folla straripante e
    per nulla disciplinata. “Gira”, che oltre ad essere un ottimo passista e scalatore possedeva uno sprint
    al fulmicotone, guizzò primo precedendo Belloni, alfiere della Legnano, e lo juniores Gay. Chiuse
    in diciotto ore e venticinque minuti, ad una media di kmh 23,850. Il totalizzatore lo dava vincente a
    lire 14, piazzato a 15; meglio di Belloni a 20 e di Gay a 22. Pronostici rispettati. (Ecco il motivo
    dell'agitazione delle migliaia di spettatori: molti avevano scommesso forte). Contemporaneamente,
    si disputava una XX Settembre ciclo-motoristica. Il gioco del totalizzatore per quell'evento andò
    completamente deserto; dettaglio che la dice lunga sul favore che il ciclismo aveva a Roma rispetto
    al motorismo. I futuristi Marinetti e Cangiullo in quei giorni davano il Teatro della Sorpresa, ma
    non ci furono sorprese alla XX Settembre. Ed era chiaro che Girardengo, gnomo ridente vestito di
    maglia tricolore che eseguiva il giro di pista con un mazzo di fiori più grosso di lui tra le braccia,
    aveva preso il posto di Beni nel cuore dei quiriti. I confusi attimi finali nella cronaca del settimanale
    torinese La Stampa Sportiva:
    E' il tramonto quando le ventimila persone che sono presenti scattano in piedi per acclamare il gruppo
    di testa che entra velocissimo in pista. Si teme l'invasione dell'ultimo chilometro e perciò l'incidente
    che ha caratterizzato l'arrivo della tappa Napoli-Roma dell'ultimo Giro d'Italia, quando la presenza
    degli spettatori sulla pista ha troncato ai leaders le loro speranze migliori. Carabinieri e guardie regie
    tentano di trattenere la folla che avanza inesorabilmente mentre si compie la volata finale. Ma i loro
    sforzi sono vani perché gran parte del pubblico riesce a penetrare nella pista, si schiera lungo il
    rettilineo d'arrivo impedendo il regolare andare della gara. A stento i commissari sportivi, i giudici
    d'arrivo e i cronometristi riescono a mantenere i loro posti liberi. Girardengo che è sbucato fra i primi
    al passaggio di accesso allo stadium accelera l'andatura mentre Brunero rallenta e Belloni si slancia
    all'inseguimento del suo eterno rivale. Azzini insegue a una macchina. Nel rettilineo d'arrivo
    Girardengo riesce a tenere la posizione, ad onta degli sforzi di Belloni per rimontarlo. Gay giunge
    terzo a ruota, seguito a qualche lunghezza da Azzini. Appena il campionissimo ha tagliato il traguardo
    sembra che la folla sia animata da una follia. Tutti si precipitano per le gradinate scavalcando i muri di
    cinta della pista e invadono la vasta pelouse; il tavolo delle firme scompare. Gli stessi corridori
    esausti stanno per essere travolti. Qualche macchina viene sfracellata. L'intervento degli agenti della
    forza pubblica non riesce a contenere la furia spasmodica degli spettatori che impediscono ai
    ritardatari di finire regolarmente la corsa.
    La frenesia dei romani per gli «assi» del ciclismo è spiegabile. Basta leggere un passo di uno scritto
    di Bruno Roghi apparso su Lo Sport Illustrato nel 1924, numero speciale dedicato al Giro d'Italia:
    Il ciclismo: fategli largo! Oggigiorno le strade, le placate strade che segano9 le regioni e raccordano
    borgate e città, hanno un temperamento elettrizzato. Una volta si accontentavano di sgranare durante il
    giorno il rosario dei carri sonnolenti e di addormentarsi la notte cullate dal canto dei galli e dalle rane.
    Oggi le ha prese la nevrastenia: sobbalzano sotto i morsi dei veicoli automatici che sputano zaffate di
    benzina. Le strade hanno fretta, non adoperano più i paracarri per la sosta del viandante, ma ne usano
    come pugnali da piantare nel cuore delle motociclette e delle automobili. E passano attraverso i paesi,
    ravvolte nel mantello della polvere sollevata, come seccantissimi uomini d'affari. Eppure, in tanta
    dittatura di modernità, la bicicletta non muore. Anzi trionfa. La bicicletta è la massaia dei mezzi di
    trasporto. Non conosce le macchine addizionatrici dei chilometri, non conosce le stregonerie delle
    «medie» trascendentali. Fa il suo traffico, fa il suo bene, fa il suo onesto mestiere. Sta la sistema della
    locomozione moderna come la nota della spesa domestica sta al bilancio di una società anonima. In
    questa aderenza alle virtù elementari dell'uomo è la forza della bicicletta nella vita della nazione. E la
    bicicletta diventa ciclismo come la parola diventa eloquenza.
    Tertulliano del ciclismo italiano anni dieci e venti, maestro dei retori della bici era Girardengo, che
    nel 1922 e 1923 assestò un trittico di successi utile a continuare a vestire la maglia bianca, rossa e
    verde. Nel 1924 avrebbe centrato sicuramente il full (contando l'edizione 1913) senonché,
    all'altezza di Prima Porta, dei chiodi buttati ad arte gli mandarono a carte e quarantotto la vittoria.
    A sorpresa, trionfò Romolo Lazzaretti, un grossetano di Arcidosso che profittò di un guasto
    meccanico occorso all'altro campione sceso dal nord e favorito dai pronostici, il fiorentino Pietro
    Linari, fresco trionfatore alla Milano-Sanremo. Lazzaretti, alfiere della casa italiana Jenis,
    precedette al traguardo dello Stadio il bolognese Michele Gordini e lo stesso Girardengo. Quella
    stagione il maremmano - un tipo alto e possente di muscolatura, temibile soprattutto nelle corse più
    dure dal punto di vista atmosferico e del chilometraggio - si era già aggiudicato la Bologna-Fiume
    al Giro d'Italia. Classe 1896, il buon Romolo, insieme al fratello Remo, nel 1916 aveva aperto a
    Roma, in via Bergamo proprio davanti a piazza Fiume, dove un tempo sorgeva il velodromo
    Salario, una ‘bottega d’arte’ che ancora oggi costituisce uno dei templi del ciclismo capitolino. E
    dal 1930 la Coppa Lazzaretti sarebbe stata un’ambita classica cittadina.
    Nel 1925 Girardengo tornò a vincere una XX Settembre sempre più aliena dall'originale e ridotta a
    299 km, ma sarebbe stata l'ultima volta per lui. Pochi mesi prima, Alfredo Binda, l'asso lanciato
    classe 1902, gli aveva rifilato cinque minuti alla Napoli-Roma del Giro d'Italia, soffiandogli la
    maglia rosa. E i due sinceramente si detestavano. Le prime cinque prove del campionato italiano
    1926, spartite tra Gira e Binda, posero sul piatto la questione della prossima fine del dominio del
    novese, che durava dal 1913. Nativo di Cittiglio, paesotto del varesino, Binda mostrava la classe e
    la freschezza necessarie per dare il cambio a Girardengo. Se ne accorsero gli allibratori romani, che
    diedero sulla stessa linea i due assi alla vigilia della corsa. Il 15 settembre Il Messaggero informò i
    lettori sul fatto che l'organizzazione fosse ormai ultimata, per un itinerario circoscritto al Lazio e
    anche questa volta indirizzato verso oriente. Pronti si dicevano il comitato romano e pronti i
    sottocomitati dei comuni sedi dei traguardi volanti. Grande l'attesa della popolazione laziale:
    Lungo tutto il percorso nelle piccole borgate, nelle cittadine industri e finanche nei casolari
    perduti fra le fertilissime vallate o arrampicati sulle rocce scoscese si aspetta impazienti il
    «grande giorno». Pochi avvenimenti possono destare, come l'attuale, il torpore di quelle popolazioni
    buone e semplici dall'animo riboccante del più puro entusiasmo, dalle facce abbronzate e dal cuore e
    dai muscoli ben saldi per il diuturno lavoro.
    Quattro anni di fascismo al potere avevano – come vedete – già ottenuto un certo effetto; almeno
    sul tono e lo stile dei giornali. Ma era vero e sacrosanto che da tre lustri la XX Settembre – toccasse
    le campagne del Lazio e della Campania, degli Abruzzi o dell'Umbria – era diventata un folk game,
    un evento che nel centro-meridione attirava la gente fuori della sfera della routine quotidiana,
    amministrando gratuitamente svago e divertimento; e incitando, incanalando passioni che,
    altrimenti, avrebbero potuto trovare sbocchi pericolosi per l'establishment. Inoltre, la XX Settembre
    rimaneva legata al nome di Roma, capitale della nazione redenta dal sacrificio di sangue della
    guerra mondiale. Era la classica ciclistica più antica, con la sua data di nascita del 1902, e riponeva
    in questa caratteristica molto del suo prestigio, pur disertata dai campioni francesi e belgi. (E'
    ipotizzabile che su tali diserzioni influissero accordi speciali tra le case industriali del nord Italia e
    le consorelle d'oltr'Alpe). La novità dei traguardi a premi invitò all'avventura nel 1922 un
    poverissimo routier friulano che tentava la via del professionismo: Ottavio Bottecchia. L'eroe
    contadino che due anni dopo sarebbe stato il primo italiano a trionfare al Tour de France, e poi
    avrebbe fatto il bis, avanti di morire in un oscuro incidente d'allenamento. Da un'autobiografia di
    Giuliana Fantuz, le note su Bottecchia alla XX Settembre del '22:
    […] Durante quella corsa, la sfortuna gli si accanì contro proprio mentre era nel gruppo di testa.
    Cadendo, rischiò la vita per l'ennesima volta,, ma ruppe solo una ruota e riuscì ad arrivare comunque
    ottavo, dimostrando ancora le sue grandi qualità. In un servizio per «Il Mezzogiorno» del 9 luglio
    1923, Felice Scandone scrisse: Seguivo l'anno scorso la “XX Settembre”. Il gruppo dopo i primi cento
    chilometri era ancora folto: la gara languiva e proprio sul culmine della salita di Atina v'era un
    traguardo. A 50 metri, ove la salita era più aspra, una maglia verde si alzava sui pedali e staccava
    vincendo. Noi giornalisti al seguito, svogliati e annoiati dal tran tran monotono, concordi
    scrivevamo: “Ecco il traguardo di Atina. E' in cima a una lunga salita; nessuno s'impegna e
    Bottecchia, un oscuro junior di Pordenone, vice facilmente”. Venne poi la fase movimentata in
    seguito a una foratura di Girardengo. Bottecchia, sull'infernale strada di Formia, andò in un fosso,
    spezzò una ruota e scomparve. E così il primo formidabile scatto in salita di quello che doveva poi
    diventare uno dei più grandi grimpeurs del mondo non fu compreso. Nel 1947, a vent'anni dalla
    morte di Bottecchia, «La Gazzetta dello Sport» pubblicò un articolo di Giuseppe Ambrosini che
    ricordava: Lo conobbi alla punzonatura della “XX Settembre” del 1922, ch'era da poco passato
    professionista. Nei sotterranei della “Forza e Coraggio Macao” s'aggirava, immusonito e taciturno,
    una specie di cornacchione spelacchiato, un povero diavolo che pareva il ritratto della miseria e della
    fame, tanto malandati erano i suoi vestiti, rugosa la fronte, scarnito il volto in cui di fra gli occhi
    infossati partiva a sprone il naso affilato che dominava la bocca asciutta, prominente e chiusa tra la
    parentesi di due enormi rughe. Era quasi timido, il giovanotto, e dovetti tirargli fuori ad una ad una
    le poche parole con le quali, insistendo, venni a sapere come aveva guadagnato quel distintivo al
    valore scolorito che portava all'occhiello. Pareva che gli seccasse di parlare di quello che aveva fatto
    in guerra, e ne parlava come della cosa più semplice e naturale di questo mondo. Da quel momento
    cominciai a voler bene a Bottecchia, anche se non sapevo e non m'immaginavo quello che sarebbe
    stato come atleta [...]
    Chiuso l'omaggio a Botescià, torniamo al periodo dei duelli tra il giovane Binda e il vecchio
    Girardengo. Il problema – grosso e apparentemente insolubile problema – della ventiduesima
    edizione 1926 stava nel fatto che «il campionissimo» non poteva prendervi parte; vittima di una
    caduta in una precedente gara, avrebbe dovuto limitarsi ad assistere alla vittoria del suo antagonista
    Binda. Ma chi era Binda? Alfredo Binda, «il Cittigliese», appariva agli occhi dei tifosi poco eroico,
    con la sua faccia da impiegato delle tasse, e piuttosto un freddo calcolatore (teneva il diploma di
    ragioniere); al contrario di Gira, che era minimo e simpatico, impetuoso e scaltro, ed apparteneva
    all'epoca scapigliata dei routiers. Accadde, così, che la Forza e Coraggio Macao venisse subissata
    da telegrammi, lettere e telefonate da tutta Italia, da parte di società sportive e singoli sportivi, un
    mucchio di parole dal tono disperato e tese ad impetrare il rinvio della corsa. La FCM interpellò
    l'UVI, e questa rispose che un certo articolo del suo statuto vietava il rinvio per una simile
    condizione. La disperazione dei girardenghiani raggiunse l'acme. Giusto alla vigilia della corsa, un
    ordine dall'alto risolse il busillis. Lo sbrigò all'italiana. Da Il Messaggero del 19 settembre 1926:
    La Forza e Coraggio Macao aveva, come prescritto da un recente decreto, chiesto l'autorizzazione di
    effettuare la XX Settembre sul noto percorso ed attendeva l'autorizzazione da parte dell'autorità di P.S.
    Senonché la corsa stessa veniva ad incontrare a Fiuggi il Circuito Automobilistico del Lazio e Sabina,
    organizzato dalla Federazione sportiva fascista; quindi per tale fatto potevano nascere incresciosi
    incidenti, ad evitare i quali e dando la precedenza alla gara automobilistica perché prima richiesta,
    l'autorità di P.S. ha negato senz'altro il permesso di effettuare la corsa. Tale provvedimento è stato
    immediatamente portato a conoscenza degli Enti interessati, ai sottocomitati ed a quanti si sono
    occupati della gara.
    La gara fu fissata alla domenica del 28 novembre, con partenza dai Cessati Spiriti e arrivo
    all'Ippodromo di Villa Glori, sito a nord della città. Destino volle che Binda vincesse tutte e tre le
    prove restanti, così che la XX Settembre servì solo a consacrarlo campione italiano. Girardengo
    neanche prese parte alla corsa. Binda giunse primo al traguardo percorrendo i 272 km in poco
    meno di dodici ore, gli finirono alle spalle Domenico Piemontesi e Brunero. Se la prese comoda
    perché l'anno dopo, al circuito mondiale di Adenau, chiuse vincitore alla media di 32 kmh, facendo
    gridare al miracolo. Era iniziato il suo impero, con Giri d'Italia vinti a ripetizione e una serie di
    primati sull'ora e maglie iridate. In Italia stufò al punto tale che nel 1930 lo pagarono per rinunciare
    al Giro. La sua liaison vittoriosa con la XX Settembre s'interruppe al 1926, in quanto la corsa
    rientrò tra le prove valide per la maglia tricolore solo nel 1927 e nel 1929, e in entrambe le
    occasioni Binda preferì evitare le lunghe tirate prossime ai 500 km. Immaginata con tragitti
    articolati in maniera da soddisfare le regioni centrali, e soprattutto restituita al suo ruolo di gran
    fondo, la XX Settembre fu vinta da corridori di livello minore. Nel 1927 se l'aggiudicò Giuseppe
    Pancera, un veronese che nella sua carriera potrà vantare ben poco. Nel 1928 venne sostituita tra le
    prove tricolori dalla Forlì-Roma, coniata in omaggio al duce. Ebbe un parterre scarso e fu vinta da
    Antonio Negrini, venticinquenne alessandrino nel cui palmares brillava la presenza ai Giochi
    Olimpici di Parigi 1924. Il venti settembre Augusto Turati, capo dell'Opera Nazionale Dopolavoro,
    mise in scena un raduno di iscritti alla Federazione Italiana Escursionisti: marcia di staffette
    ciclistiche verso la capitale a rappresentare le novantaquattro provincie del paese.
    Nel 1929 ritornò nel novero delle prove valide per la maglia di campione d'Italia e recuperò il
    percorso classico Roma-Napoli-Roma. Vi parteciparono una cinquantina di corridori, la metà della
    Capitale, una decina del nord e i restanti del meridione; tra i nordisti anche Alfredo Binda, assieme
    al fratello Albino. In palio la targa de Il Messaggero e una medaglia d'oro offerta dal duce. La
    particolarità di quella edizione fu che i concorrenti si radunarono al tramonto al Palazzo del Freddo
    in via Principe Eugenio, rinomata gelateria ancora oggi esistente nel quartiere Esquilino: unica
    vestigia commerciale della Roma umbertina in mezzo a una miriade di negozietti cinesi. Giovanni
    Fassi, vicepresidente del comitato organizzatore presieduto dal barone Edgardo Lazzaroni,
    ricordandosi di essere stato egli stesso ottimo velocipedista e partecipante alle prime edizioni,
    offerse un mega-rinfresco; la cosa generò un bel po' di confusione, rendendo difficile ai
    metropolitani la regolazione del traffico adiacente. Poi i corridori s'incolonnarono verso Porta S.
    Giovanni e il capo del CONI, il gerarca Augusto Turati, si esibì in un discorso di tono patriottico.
    Nel suo snodarsi lungo l'Appia, la Casilina e la Tiburtina la corsa toccò trentadue comuni, con firma
    obbligatoria a Capua, Napoli, Cassino e Palestrina. Il programma prevedeva un tragitto di 485
    chilometri e cento metri, con partenza nella notte ai Cessati Spiriti e arrivo al Cinodromo della
    Rondinella, impianto da poco tirato su accanto allo Stadio del Partito Nazionale Fascista. (Lo stadio
    del 1911 aveva perso la pista dopo una ristrutturazione completata nel 1927, e contemporaneamente
    era stato riadattato l'Appio per consentire le riunioni dei pistards). Si videro le scene di folle
    allineate lungo la strada principale nei paesi illuminati a festa, presenti le autorità del luogo; scene
    simili a quelle che accompagnavano la Mille Miglia automobilistica. Si trattava, come al solito, di
    un “tutti contro Binda” ma, poco dopo Itri, sulla salita di Cascano, Binda si ritirò. Il cronista de Il
    Messaggero parlò di «incomprensibile abbandono», eppure la realtà era chiara: il ragioniere non
    aveva avversari per la maglia tricolore e non reputava di sudare più di tanto in una gara che, pur
    presentata di velina come «la classica delle classiche», non veniva frequentata dagli stranieri e
    rimaneva in secondo piano nel panorama internazionale. Privata di Binda, la gara rullò via
    monotona. Un temporale sorprese i corridori nel tratto finale, per cui il commissario dell'UVI decise
    d'annullare l'arrivo alla Rondinella e l'improvvisò sulla Tiburtina, al chilometro 470 in un rettilineo
    all'altezza della borgata di Settecamini. La volata si svolse poco dopo le quattro del pomeriggio del
    20 e fu vinta dal milanese, di Pizzighettone, Gaetano Belloni, un veterano che dodici anni prima
    sorrideva dalle copertine de Lo Sport Illustrato con un cappello piumato da bersagliere. Dobbiamo
    dire che per Belloni fu una rivincita del destino perché, nel 1921, in un arrivo di una tappa del Giro
    sulla pista in terra della Rondinella, un tizio pagato dagli avversari gli aveva tagliato la strada
    facendolo cadere, e quel Giro d'Italia, speciale perché Gira s'era ritirato, il milanese l'aveva poi
    perso per soli 43 secondi! Quindi i sopravvissuti alla corsa, sempre massacrante per via della tirata
    unica di diciotto ore abbondanti, proseguirono fino alla Rondinella, dove nel frattempo la folla
    aveva ingannato l'attesa assistendo ad un match di calcio tra la Lazio e la Triestina. Il Messaggero
    presentò l'epilogo come «la vittoria dell'anziano Belloni su un gruppo di giovani avversari», e pare
    che il «vecio Tano» non stesse più nella pelle per il successo cercato invano quando le forze le
    aveva più fresche.
    Ma il ritiro snobistico di Binda fece male al prestigio della XX Settembre. L'anno dopo non fu
    inserita tra le prove tricolori, sostituita dalla Predappio-Roma vinta dal nuovo campione che ora
    insidiava Binda: Learco Guerra. La ventiseiesima edizione del 1930, nonostante gli sforzi degli
    organizzatori Nino Ilari, Giulio Bartoli e Alfredo Giacobini, passò così sottotraccia. Assenti Binda
    e Guerra, si risolse in una «turistica del XX Settembre ». «Bella vittoria in una brutta corsa» -
    commentò Pierluigi Tagiuri sul quotidiano sportivo romano Il Littoriale. La bella vittoria fu di
    Michele Mara, un classe 1903 di Busto Arsizio, buon passista e finisseur, che in quella stagione
    aveva sorprendentemente vinto la Milano-Sanremo e cinque tappe al Giro d'Italia. Davanti alle
    difficoltà della Forza e Coraggio Macao, con l'ombra della Predappio-Roma che si svolgeva a
    settembre e presentava lo stesso chilometraggio (480 km), l'UVI disse basta e per tre anni la corsa
    non venne effettuata. Anche il Concordato tra Mussolini e il papa certamente contribuì allo stop,
    seppure non esistano prove che dopo la firma vi sia stata una precisa richiesta del Vaticano al
    riguardo.
    Risorse nel 1934, passando di organizzazione alla Federazione Ciclistica Italiana; per darle peso, fu
    inserita tra le sette prove valide per il campionato assoluto su strada. La seconda ristrutturazione del
    Velodromo Appio, avvenuta nel 1933-34, con le tribune e l'anello della pista tirati su in cemento per
    volere della Federciclismo guidata dall'ex pistard Federico Momo, aveva fatto da traino al recupero.
    La riesumazione della Roma-Napoli-Roma s'inserì, dunque, in questo rilancio del ciclismo
    capitolino. In più, c'era il dato di Napoli, che con 12 bici per ogni 1000 abitanti, era una delle città
    con la minore diffusione, a fronte ad esempio di Milano che arrivava a 236. Per la Penisola
    circolavano quasi 5 milioni di biciclette, mentre tre lustri prima esse erano state meno della metà.
    La densità sul territorio nazionale era di una bici per ogni otto abitanti; eppure si stava indietro
    rispetto alle altre grandi nazioni europee: per dire, la Francia e la Gran Bretagna avevano dieci
    milioni di bici in circolazione e la Germania addirittura venti. Grazie all'azione dell'OND, erano
    comunque in costante aumento i cicloturisti e gli agonisti provenienti dalle sezioni del dopolavoro.
    Sportivi che preparavano le gare magari aiutandosi con prodotti comprati in farmacia: i più diffusi
    erano il Peptocola e il Colastier, un liquido e uno zucchero che si mescolavano nella borraccia.
    «E' la corsa classica per eccellenza, ha un fascino del tutto particolare, è la gara degli assi giacché il
    suo libro d'oro reca i nomi di quelli che hanno irradiato della loro classe inconfondibile il ciclismo
    internazionale.... perla fulgidissima, rara, per cui qualsiasi classificazione rimane impossibile» -
    scrisse Il Messaggero a mo' di presentazione. Giornale che continuava a patrocinare la corsa con la
    collaborazione de Il Mezzogiorno Sportivo di Napoli. Per «deferenza alla FCI» e «in maniera
    totalitaria» si iscrissero tutti i migliori, compreso Guerra. “La locomotiva umana” avrebbe potuto
    anche passare la mano, perché la sua maglia tricolore non era in pericolo. Ma preferì non mancare
    ad un appuntamento che le attenzioni palesate dalla Federazione rendeva immancabile. L'Italia “in
    piedi” di Mussolini stava iniziando la campagna in Africa Orientale ed entrando nel periodo
    autarchico; ci si stava rimettendo l'elmetto e Guerra, nomen omen, non poteva sottrarsi a nessun
    comando. La gara, diretta da Dario Beni, fu rispettata nelle sue tradizioni in tutto meno che nella
    data, spostata alla domenica del 9 settembre. Le medie dei corridori, innalzatesi in tre decadi dai
    venti ai trenta all'ora, il miglioramento delle consolari Casilina e Appia, a larghi tratti asfaltate,
    concedevano la tirata unica con partenza notturna a Centocelle, arrivo a Napoli al mattino e ritorno
    la sera nel catino del Motovelodromo. Il ritrovo e la punzonatura ebbero luogo ancora a piazza
    Vittorio e al Palazzo del Freddo, e alle una antimeridiane, al via dato dal segretario federale
    dell'Urbe, partirono in cinquantuno, per un record di partecipazione che non sarà più superato.
    Guerra, spalleggiato dai compagni di squadra della Maino, frazionò il gruppo sotto la sua spinta
    possente. Il velodromo dell'Arenaccia venne raggiunto a una media di 34 kmh. Nel ritorno lungo
    l'Appia la fatica abbassò l'eccezionale andatura, e i romani poterono entusiasmarsi per la rimonta
    sul gruppo di testa di Umberto Guarducci, portacolori della giallorossa AS Roma. Guerra affrontò le
    salite di Velletri e Genzano insieme ad altri cinque corridori - Bergamaschi, Piubellini, Balli,
    Guarducci e Clerici - disponendo dell'aiuto del conterraneo Vasco Bergamaschi e avendo contro
    quelli della Legnano, Bianchi e Frejus. Passò sempre primo fra due ali di folla (duecentomila gli
    spettatori stimati solo tra Velletri e Roma) che incitavano lui, il vincitore del Giro d'Italia nonché
    vice-campione del mondo, e speravano in un miracolo di Guarducci. La volata all'Appio nella
    cronaca de Il Messaggero:
    Nel primo giro conduce Bergamaschi alla cui ruota sono Guerra e Guarducci; alla campana
    Bergamaschi allunga poi alla prima curva, Guerra assume il comando trascinandosi Guarducci, che
    difende con tutte le forze la seconda posizione. La vittoria di Guerra non è difficile, ma quello che più
    entusiasma il pubblico di romano è l'affermazione del piccolo atleta della A.S. Roma.
    Il mantovano chiuse i 261 km del percorso in poco più di quindici ore, alla media di 30,537 kmh.
    Mise la sua firma su un albo d'oro illustre, accompagnandola a quelle di Pavesi, Galetti, Gerbi,
    Beni, Girardengo e Binda. Nel 1935 la XX Settembre non venne inclusa nel campionato tricolore,
    articolato in nove prove. Fu praticamente sostituita in calendario dal Giro delle Due Provincie sulle
    strade di Messina. L'era delle gran fondo appariva definitivamente tramontata. Gli “stradisti”
    viaggiavano a medie elevate e s'impegnavano solo in una delle due frazioni, se si trattava di blocchi
    di oltre duecento chilometri. La gara più lunga delle nove del 1935 fu il Giro di Toscana di 303 km.
    Inoltre, ritornare a una prova ridotta, che escludeva Napoli, non aveva molto senso. Peccato che la
    classica romana non sopravvisse ancora una stagione. Probabilmente avrebbe visto protagonista il
    campione del futuro, Gino Bartali, che proprio nel 1935 vestì la maglia di campione d'Italia.
    Il Gran Premio Ciclomotoristico delle Nazioni (1950-1961)
    Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, la voglia di motorizzazione degli italiani cavalcò
    lo scooter e il motociclo. Prima la Vespa, geniale trovata della Piaggio, poi la Lambretta, prodotto
    della casa Innocenti. Si videro a bordo di «motorini con le ruote grandi come forme di formaggio
    pecorino» (la definizione è di Ernest Hemigway) madri di famiglia, vecchi contadini e giovani
    sacerdoti. Lo scooter, con la sua rivoluzionaria struttura portante d'ispirazione automobilistica,
    mezzo pratico e cittadino, allargò a dismisura il bacino d'utenza delle due ruote. Nei primi anni
    cinquanta, Leo Longanesi sintetizzava i pregi terreni e le metafisiche virtù dello scooter con una
    pubblicità della lambretta in cui si vedevano marito e moglie, molto dignitosi, fluttuare a mezz'aria;
    la didascalia diceva: «E' così leggera che è come se non ci fosse». Nel 1949 nacquero i Vespa Club
    e dieci anni dopo ve ne erano 232 sparsi per l'Italia, e oltre 60.000 i soci. Le disponibilità finanziarie
    permisero alla Piaggio di svolgere un'attività turistica su scala nazionale ed internazionale che attirò
    immediatamente l'interesse degli utenti. I giovani e i neofiti di motorizzazione chiedevano di essere
    accompagnati a divertirsi, sempre più lontano, sempre in luoghi nuovi, sempre in comitiva.
    Riprendendo una linea che era stata fatta propria durante il regime dall'associazionismo turisticosportivo
    dell'Opera Nazionale Dopolavoro, rampollarono, accanto alle attività di puro svago
    (raduni, gite), altre con intenti più agonistici: gymkane, gare di regolarità, Audax e Giri
    interregionali. Anche il Gruppo Innocenti, produttore dal 1947 della Lambretta - uno scooter a due
    tempi funzionante a miscela di benzina e olio, a tre o quattro marce, elaborato dagli ingegneri
    Pierluigi Torre e Cesare Pallavicino - istituì i suoi club e nacque, tra “vespisti” e “lambrettisti”,
    una fiera rivalità su quale dei due scooter fosse il migliore. Nel 1956 dagli stabilimenti di Pontedera
    uscì la decimilionesima Vespa, esportata in più di cento paesi nel mondo, con imitazioni in URSS e
    in Giappone. Nel 1959 una famiglia media del “triangolo industriale” non possedeva ancora il
    televisore ma ascoltava la radio, versava le tremila lire di canone e pagava le cinquemila lire per il
    bollo di circolazione dello scooter; quaranta anni prima, aveva pagato le dieci lire della tassa annua
    della bicicletta. Ai Giochi Olimpici di Roma '60, gli americani si meravigliarono nel vedere che il
    grosso del traffico della città era costituito da minuscoli scooter, e non da lunghe auto come nelle
    loro metropoli. Possiamo dunque dire che, per una quindicina d'anni, fino al boom della “utilitaria”
    avvenuto nel decennio 1960-70 (da un milione salirono a dieci milioni le auto circolanti), lo scooter
    prese in Italia il posto della bici come mezzo di spostamento per il lavoro e il tempo libero. Le
    cifre? Nel 1961 giravano 1.030.000 ciclomotori, 1.800.000 scooter da 51cc a 125cc, 874.000 oltre i
    125cc. Eravamo diventati un popolo di scooteristi e ciclomotoristi.
    Il boom dello scooter non preoccupò più di tanto l'industria ciclistica, anch'essa in ascesa di vendite
    per via della povertà diffusa, che impediva l'acquisto dell'automobile e della motocicletta. Rispetto
    all'auto, alla moto e al tram, intorno alla metà degli anni cinquanta l'uso della bici stava in un
    rapporto uno a cinquanta, a trenta, a dieci. Lungi dal farsi la guerra, i due comparti arrivarono a un
    accordo di buona vicinanza che, sul piano dell'organizzazione di manifestazioni sportive, partorì un
    ibrido: la corsa ciclo-motoristica. Gare di corridori ciclisti sfruttanti la scia della motocicletta – gare
    dette stayers - se ne erano viste già durante la belle époque, partendo dalla Francia, ma si trattava di
    eventi su pista. La novità fu la prova su strada con la bici agganciata ad uno scooter tramite un rullo.
    E fu una invenzione tutta italiana. Se la mise nella zucca un giornalista campano, Natale Bertocco,
    che lavorava come organizzatore nel Centro Sportivo Italiano. Il CSI era un ente di propaganda
    sportiva che gravitava nell'area area democristiana, contava decine di migliaia di giovani soci nel
    Paese e faceva sport a 360 gradi. Oltre a frequentare via della Conciliazione a Roma, sede centrale
    del CSI, il dottor Bertocco scriveva su Il Tempo, allora diretto da Renato Angiolillo Nel 1949 aveva
    appena pubblicato un volume sull'attività juniores del CSI, e un altro libro stava preparando sullo
    sport italiano in generale: una sorta di manuale del perfetto organizzatore di manifestazioni sportive.
    Al fine di agganciare in qualche modo il giornale che lo stipendiava al Giro d'Italia, che al volgere
    degli anni quaranta stava vivendo un irripetibile splendore per via della lotta tra Bartali e Coppi,
    Bertocco lanciò un concorso “Tempo-Innocenti”, riscuotendo favore fra gli inviati speciali dei
    giornali al seguito della corsa a tappe. A quel punto, un dirigente della Innocenti, l'ingegner Lauro,
    entusiasmato dal buon esito del concorso gli chiese di escogitare una formula pubblicitaria che
    fungesse da traino alla nuova “Lambretta C 125 ”, modello che s'avvicinava alla Vespa in virtù
    della carrozzeria chiusa, cioè carenata. Nel 1959, in un'intervista rilasciata a Enzo Balboni del
    Corriere dello Sport, Bertocco così rievocò la genesi del connubio tra scooter e bici in una prova
    agonistica su strada:
    Pensai subito al ciclismo, perché il ciclismo è lo sport più popolare, più vicino alle folle di tutte le
    strade e perché è lo sport che più ho nel cuore. Ciclismo e motoscooter, non vi era che da trovare una
    formula giusta, quella del successo. La trovai subito: non una copia della Bordeaux-Parigi, che è corsa
    sui generis, una gara di gran fondo più che una competizione veloce, ove i derny hanno il valore di
    allenatori più per far riposare i concorrenti che per impegnarli in grosse rincorse, (la Bordeaux-Parigi
    utilizzava in alcuni suoi tratti bici a motore chiamate derny, molto leggere e che non erano né moto
    stayer né scooter, ndA) ma qualcosa di più suggestivo e pratico, qualcosa che unisse uomini e motori,
    e che potesse portare il ciclismo in casa degli sportivi. Così venne l'idea dell'abbinamento e dei
    circuiti. Del resto, è una mia vecchia idea quella degli abbinamenti, sia prova di ciò il fatto che un
    tempo organizzai la Coppa Piacitelli per indipendenti e dilettanti senior sulla Anzio-Roma, una gara a
    cronometro a coppie che prevedeva alcune prove supplementari sulla pista del Velodromo Appio. Da
    quella corsa venne poi l'idea a Baracchi di fare il suo Trofeo...
    Bertocco era napoletano e viveva a Roma. Aveva bisogno di una manifestazione sportiva che
    reclamizzasse la Lambretta nel Mezzogiorno, sempre arretrato rispetto al nord in fatto di diffusione
    di moderni mezzi di locomozione, e la reclamizzasse come faceva la Gazzetta dello Sport col suo
    Giro, portando i campioni-testimonial davanti la casa dei clienti-tifosi. C'era la vecchia “Roma-
    Napoli-Roma” a disposizione, ossia la XX Settembre, che Bertocco aveva visto passare quand'era
    ragazzo, corsa da tempo defunta ma ancora ricordata da molti. Fu logico per lui fare due più due e
    rimettere in piedi l'organizzazione della classicissima del centro-sud, deformandola in una maniera
    fantasiosa e originale; perché era ovvio che nessun corridore avrebbe più accettato di partire
    nottetempo per filarsi 500 km su strade non asfaltate. La sua formula fu la seguente: calendario a
    fine aprile, poco avanti il Giro e resa libera da qualsiasi richiamo patriottico (ce n'era già stato
    abbastanza sotto il fascismo, di patriottismo). Due concorrenti in gara e due mezzi a disposizione -
    l'allenatore e il corridore, lo scooter e la bici - ma un solo uomo acclamato dalle folle: il campione
    ciclista; e un mezzo in special modo esaltato nei resoconti e nella pubblicità della corsa: lo scooter.
    Una gara non a tirata unica come ai tempi in cui Berta filava, non spezzata in due lunghe giornate
    con le partenze di notte o all'alba; piuttosto, frazionata in tante brevi prove in linea e a cronometro,
    inframezzate da tratti volanti dietro motori, nei luoghi dove le strade si presentavano perfettamente
    lisce d'asfalto, e con gli arrivi ospitati nei circuiti stradali cittadini; così che la la gente potesse
    ingannare l'attesa assistendo a esibizioni di locali ciclisti dilettanti, allo stesso tempo venendo
    bombardata dall'apparato pubblicitario delle case che sponsorizzavano la manifestazione intera.
    Case che aiutavano nel supporto logistico e fornivano i premi per i corridori.
    Queste caratteristiche resero la Roma-Napoli-Roma – ridenominata Gran Premio Ciclomotoristico
    delle Nazioni - adatta ai passisti e ai pistard. E siccome quasi tutti i divi pedalatori dell'epoca, oltre
    che scalatori erano superbi regolaristi e sapevano sbrigarsela in pista (escluso Gino Bartali), la
    genialata ulteriore di Bertocco fu la seguente: limitiamo l'iscrizione ai soli campioni, priviamoli
    dell'aiuto dei gregari, mettiamoli praticamente nudi l'uno di fronte all'altro, valutiamo il loro
    coraggio con l'aggancio “al volo” dietro il rullo, a rischio di cadere (capiterà subito a Bartali),
    testiamo le reali capacità tattiche personali, senza il gioco di squadra dei luogotenenti e le carovane
    sonnolente di trasferimento ad allungare il brodo, spremiamoli come limoni in due e più giorni (la
    dilatazione della corsa ad altre città essendo insita nel genotipo), facendoli trascorrere in velocità da
    un esercizio all'altro, con brevi pause tanto per stirare un attimo le gambe su un letto d'albergo, e
    vediamo un po' alla fine cosa ne sorte. Sulla risposta della gente, Bertocco era tranquillo: a sud di
    Roma si era affamati di grande ciclismo, non c'era ancora la televisione e la radio stuzzicava
    l'appetito ma non saziava. Tutto stava a vedere come avrebbero reagito le star alla prima uscita
    sperimentale nel 1950. Pagate bene, reagirono bene. Era l'Anno Santo. Il “Ciclomotoristico”,
    inventato da un organizzatore sportivo legato ad ambienti vicini al Vaticano, nasceva sotto i
    migliori auspici.
    Il 20 e il 21 aprile furono le date scelte per la ventottesima edizione della Roma-Napoli-Roma / XX
    Settembre. (In realtà, nessuna delle due titolazioni si attaglia al GP Ciclomotoristico delle Nazioni,
    manifestazione da subito slegata dalla rievocazione della presa di Roma e in seguito proiettata su
    altre città meridionali). Si trattava di un giovedì e di un venerdì, e l'arrivo a Roma nel giorno dei
    nataleìi dell'Urbs Aeterna voleva pure dire qualcosa: con quella data si ricordava al popolo che,
    prima degli azzurri savoiardi e dei rossi garibaldini, c'era stata una storia bimillenaria che aveva
    avuto la Chiesa come protagonista. Anche il passaggio del patrocinio da Il Messaggero a Il Tempo
    era un portato del nuovo corso politico e sociale: da un giornale per tradizione spinoso verso i preti
    a un altro, viceversa, compiacente con gli stessi. E questo in un clima generale, non
    dimentichiamolo, quanto mai turbolento, stante le forti pretese della sinistra in un Paese da
    ricostruire dopo una guerra perduta in alleanza col diavolo. Il leader democristiano Alcide De
    Gasperi, capo del governo, mise in palio una coppa d'argento a nome della Presidenza del Consiglio
    dei Ministri, e altri trofei furono donati dal Ministero dell'Industria e del Lavoro, da Il Tempo e dal
    presidente del CONI, Giulio Onesti. Ma i partecipanti al Ciclomotoristico e le case che essi
    rappresentavano non correvano certo per quei premi, come il Grammel di buona memoria (il
    vecchio tedesco fu comunque scovato da Bertocco nella sua impresa di pulitura di tappeti sulla
    Cassia e invitato, inseme ad altri pionieri tra cui Spadoni e Fassi, a presenziare alla partenza al
    Velodromo). Grazie ai quattrini della Innocenti e degli altri due sponsor (Chinotto Neri e Lametta
    Tre Teste), si convinsero alcune delle maggiori équipes ad iscrivere alla prova i loro capitani. Sui
    giornali rimbalzarono i nomi di Coppi, Bartali, Magni, Leoni, Bevilacqua, Bobet, Robic, Van
    Steenberger, Schotte, Ortelli, Martini, Maggini, Ricci e i due beniamini degli appassionati romani:
    Aldo Beni e il biancazzurro Pontisso. In particolare, c'erano gli attuali «quattro moschettieri» del
    ciclismo mondiale: Fausto Coppi, iscritto insieme al fratello Serse, Gino Bartali, recente vincitore
    della Miano-Sanremo, il campione del mondo in carica Ric Van Steenbergen, un fiammingo che
    l'anno prima aveva bruciato Coppi sul circuito di Copenhagen, e il campione di Francia Louison
    Bobet, il fuoriclasse bretone che sapeva calcolare tutto per vincere. All'appello mancavano gli
    svizzeri Hugo Koblet e Ferdi Kubler, prossimi trionfatori al Giro e al Tour.
    Il pomeriggio del 18 aprile, a piazza Colonna, si effettuò l'abbinamento a sorteggio delle lambrette e
    degli allenatori. Coppi, il divo più amato, si recò nella vicina sede de Il Tempo per apporre il suo
    autografo sulla prima copia di un numero speciale dedicato alla corsa. Insieme ad Angiolillo, lo
    attendevano l'organizzatore Bertocco, il direttore della corsa Vittorio Spositi e il commissario UVI
    Elio Rimedio. Il giorno dopo, a mezzogiorno, Coppi, Bartali e gli altri campioni d'osservanza
    cattolica furono ricevuti in udienza da papa Pio XII. Il pontefice si fece fotografare con i corridori,
    sorridente. Il 20 alle sette del mattino, da Centocelle e avendo a cornice una notevole folla, partì la
    prima prova, la Roma-Frosinone; se l'aggiudicò, a una media superiore ai 52 kmh, Jean Robic, il
    francese capofila della Viscontea e campione iridato di ciclo-campestre. Robic era noto ai tifosi col
    soprannome di “testa di vetro”, perché gareggiava con una calotta di vetro infrangibile che gli era
    stata applicata nel cranio dopo un capitombolo. Alle spalle dell'intemerato Robic si piazzarono
    Coppi, Van Steenbergen e Bobet. Un tratto del “primo settore” fu percorso dietro motori. L'inviato
    de Il Tempo, Guglielmo Peirce, così descrisse l'esperienza:
    Incollati dietro le Lambrette, che volano in certi tratti a 60-70 chilometri l'ora, in macchina per potere
    superare qualcuno bisogna andare a 100 chilometri l'ora. Da Roma a Frosinone abbiamo viaggiato
    come palle di fucile.
    Il “secondo settore”, da Frosinone a Napoli, si concluse con la vittoria di Coppi, che percorse i 153
    km in poco meno di quattro ore e venti minuti, applaudito al Velodromo dell'Arenaccia da una folla
    entusiasta. Il 21 aprile, i 28 corridori alle sette del mattino iniziarono il “terzo settore”, da Napoli a
    Latina, con una frazione in linea fino a Terracina e l'aggancio volante ai rulli. Per la prima volta in
    Italia si assistette a un arrivo dietro motori di una corsa ciclistica dentro una città. Coppi vinse la
    Napoli-Latina di 171 km nel tempo complessivo di 4.44'42”, conquistando la maglia giallorossa di
    leader della classifica davanti a Robic per un solo secondo di differenza. Prima di fare il “quarto
    settore”, destinazione Roma, ci fu una sosta di tre ore. Bertocco andò dal campionissimo in albergo
    per consegnargli la maglia di capo-classifica. Lo trovò esausto, sotto le coperte e col naso che
    spuntava, enorme, dalle lenzuola. Al “come stai?” di prammatica, l'Airone rispose con un
    semplice: “Che fatica!”. Era accaduto che i tragitti dietro motore, non lunghi ma tirati al massimo,
    stavano fiaccando oltre misura le energie dei corridori, tanto che a fine gara anche altri, in specie i
    francesi della Girard, avrebbero confessato di non avere mai disputato in carriera una corsa tanto
    dura. Nel primo pomeriggio del 21 aprile, da Terracina i partecipanti, divisi in gruppi di cinque
    seguendo l'ordine di classifica, partirono per la prova finale. I primi furono Coppi, Robic, Van
    Steenbergen, Bobet e il pratese Nedo Logli, anch'egli della Viscontea e già in luce nell'ultima
    Milano-Sanremo. Nel secondo gruppo c'era Bartali, messo tra i favoriti della vigilia. Ma il
    fiorentino di Ponte a Ema, appena avviata, con spinta possente, la rimonta, cadde e si ritirò.
    Eliminato Bartali, nessuno dubitava che Coppi potesse arrivare in volata con Robic all'Appio, e così
    impreziosire l'albo d'oro della Roma-Napoli-Roma. Accadde invece che, dalle parti di Velletri, al
    momento dell'aggancio ai rulli un cane traversò la lambretta guidata dall'allenatore Pippo Latini, e
    lo sbandamento che ne derivò fece perdere al capofila della Bianchi quei secondi preziosi che
    permisero a Robic, e al suo lambrettista Gentili, d'involarsi senza l'italiano nella scia. Nelle ultime
    fasi, lungo la via Casilina e avvicinandosi l'Urbe tra due ali di folla, si vide il piccolo bretone, con
    voce aspra e sibilata tra i denti gialli e radi, incitare l'allenatore ad aumentare la velocità.
    Grandissima fu la sorpresa dei ventimila dell'Appio all'entrata della maglia blu di Robic, in luogo di
    quella rossa di Coppi. “Testa di vetro” chiuse i 450 km nel tempo complessivo di 12 ore, 22 minuti
    e 51 secondi, precedendo Coppi di 8 secondi; terzo Bobet della équipe Guerra, quarto Van
    Steenbergen della Girard e quinto Logli. Venticinque gli arrivati sui ventotto partiti. Robic,
    aggiudicandosi il primo GP Ciclomotoristico delle Nazioni, aveva tenuto fede a una promessa fatta
    ai marinai della corazzata “Jean D'Arc” alla fonda nel porto di Napoli: «Batterò Fostò per l'onore della
    Francia!».
    La gara, ripresa dalla Olimpia Film, si rivelò un successo clamoroso. Gli inviati dei giornali belgi e
    francesi la lodarono senza riserve, e perfino la “Gazzetta” dovette ammettere la validità della
    formula, la sua novità. Critiche furono comunque mosse. Principalmente al fatto che la cilindrata
    delle lambrette, nei tratti in discesa, non consentiva ai corridori di alzare la velocità a quella che essi
    desideravano; e questo nonostante gli speciali rapporti studiati, l'alleggerimento delle bici e le
    gomme particolari usate. Inoltre, sembrava davvero troppo stressante il ritmo imposto, con le brevi
    soste tra un settore e l'altro e il pericolo di cadere rovinosamente negli agganci volanti ai rulli. Ma
    proprio questa durezza, queste difficoltà fantasiose resero immediatamente popolare la corsa, ne
    costituirono il marchio di fabbrica. E qualcuno s'arrischiò a dire che il binomio bici & scooter
    avrebbe rappresentato il prossimo futuro del ciclismo agonistico.
    La seconda edizione si corse il 14-15-16 aprile 1951, sulla distanza di 700 km. Assente Coppi,
    convalescente da seri guai fisici, si presentarono varie star: Bartali, Magni, Bevilacqua, Bobet,
    Robic, Kubler. In tutto trenta concorrenti e altrettanti allenatori. Bertocco sperava che stavolta
    toccasse a Bartali. Egli era un fervente ammiratore del terziario francescano che pedalava e, durante
    il Tour del '48, nella sfida sanguinosa con Coppi aveva scritto sul giornalino per ragazzi Il
    Vittorioso, senza un'ombra d'ironia:
    Dov'eri?, sfido io! Eri già in montagna tu, la tappa dopo, quando gli altri erano ancora in pianura. Eri
    in montagna a goderti il fresco, a disintossicarti di quelle brutte cose mondane viste in riviera, nella
    famosa costa azzurra, eri lassù a respirare la tua aria, l'aria delle alte vette, e per farti festa gli
    stambecchi e le aquile t'eran venuti incontro festosi.
    La formula restò quasi invariata, perché Bertocco pensò a ridurre il chilometraggio complessivo e
    ad aumentare i tratti dietro motori. Le tappe, divise nei tre giorni, furono le seguenti: Roma-
    Frosinone-Caserta, Caserta-Salerno-Napoli, Napoli-Latina-Roma. La partenza sempre da
    Centocelle, alle undici del mattino, e l'arrivo alla Passeggiata Archeologica alle Terme di Caracalla,
    per un “carosello” lambretta&ciclo che divertì moltissimo il pubblico. Vinse Ferdi Kubler, lo
    svizzero trentenne che in stagione si sarebbe aggiudicato il campionato del mondo su strada.
    Personaggio spesso presente nelle gare italiane, la sua vittoria davanti a Bartali e a Robic venne
    accettata di buon grado dalla folla capitolina, entusiasmata dalla tenacia di Gino Bartali e dall'ottima
    prova di Romano Pontisso. Kubler trionfò insieme a Latini, che si rifece così della sfortuna
    dell'anno avanti. Mario De Angelis, inviato de Il Corriere dello Sport, parlò di un «chiaro successo
    tecnico, agonistico e spettacolare della corsa ardita». Il suo collega Ennio Mantella, uno dei cronisti
    più quotati in Italia, disse che il ciclismo si avviava a «mettersi sottobraccio al motorismo», che gli
    organizzatori l'avevano «azzeccata in pieno» e si augurò che la formula venisse applicata a qualche
    tappa del Giro d'Italia. L'unica nota negativa riguardò l'eccessiva lunghezza di almeno uno dei tratti
    dietro ai rulli. Bertocco, trionfante, annunciò che nel 1952 la corsa si sarebbe svolta in quattro
    tappe, con l'innesto della Anacapri-Capri e il riposo nell'isola meravigliosa.
    In realtà questa novità non si concretizzò; ma un'altra, più importante, sì: la sostituzione della
    Lambretta con la Gilera. La casa di Arcore stava in crisi di vendite e intendeva rilanciarsi
    appoggiandosi al Ciclomotoristico. Fu scelta tra le molte richieste piovute a Bartocco dopo il suo
    annuncio che, terminata la fase sperimentale, la Roma-Napoli-Roma aveva bisogno di una moto
    leggera di cilindrata maggiore dello scooter. La Gilera mise a disposizione il modello “150 Sport”,
    un monocilindrico a quattro tempi sfiorante i 100 all'ora coi suoi 7,5 cavalli e i 5.800 giri al minuto.
    L'artificio della moto, meglio stabilizzata e in possesso di una ripresa efficace in salita, consentiva
    velocità più elevate ai corridori; in più, i tecnici della casa brianzola elaborarono un leggero e
    perfetto dispositivo d'aggancio, un “rullo” che piacque molto ai ciclisti. L'edizione così
    rivoluzionata rispose in pieno alle attese. Il direttore de Il Tempo, Angiolillo, la presentò egli stesso
    agli spettatori dei cinegiornali Incom, con l'Istituto Luce che entrava anch'esso in campo come
    sponsor e forniva il reportage giornalistico. Assente Coppi, impegnato al Giro di Romandia, Bartali
    provò per la terza volta a vincere la corsa, articolata in quattro giornate dal 17 al 20 aprile.
    Ginettaccio dominò nella seconda tappa, la Caserta-Salerno interamente in linea, ma perse nei tratti
    dietro la moto e nelle “australiana” su pista a Napoli, vinta da Robic, e in quella finale di 40 km (20
    giri) sul circuito di Caracalla. L'impresa di spezzare il dominio straniero - con l'insidia portata da
    Robic e dal belga Ockers - riuscì a Fiorenzo Magni, il campione che nella enfatica prosa
    giornalistica dell'epoca veniva definito «il terzo uomo». Il racconto di Giorgio Fattori, sulla rivista
    milanese Lo Sport, illumina gli aspetti tecnici originalissimi del Ciclomotoristico, che consentivano
    ai pesi mosca di soverchiare i muscolosi passisti:
    Tra Jean e Stan, i pigmei a motore, la «pelata» di Fiorenzo Magni si accende come un riflettore sotto il
    pazzo solleone dell'aprile romano, a dispetto di ogni pronostico della vigilia e di ogni meditata
    considerazione alla partenza dell'ultima tappa. Magni ha soffiato dal piatto degli stranieri quella
    vittoria che sarebbe stata la terza consecutiva in questa Roma-Napoli-Roma, curioso cocktail
    ciclomotoristico che sta aprendosi un cunicolo di passione nel cuore dei tifosi. Jean Robic e Stan
    Ockers dovevano essere quest'anno i becchini impassibili delle incerte speranze italiane, piccolissimi e
    acrobatici nei lunghi tratti dietro motore che risolvono questa corsa per chi ha la statura fisica e l'arte di
    kermesse per rattrappirsi, dietro la motocicletta e scapolare quindi il «vento di corsa» che è il
    maggiore ostacolo ai giganti tipo Magni e Van Steen. Per chilometri e chilometri il vento aveva
    cercato con astuta pazienza, con schiaffeggiante furia e ostinazione i due diabolici pigmei, senza
    trovarli mai alle tossicolose urlate dei motori, quando gli «agganciamenti», spettacolari e insidiosi,
    mutavano volto alla gara dandole la smorfia isterica di una kermesse dove i valori puri dei pedalatori
    venivano notevolmente sommersi. Jean e Stan, i carissimi nemici, erano sempre lì a dirigere la solfa di
    scatti e fughe, per una volta ancora, nelle speciali condizioni della corsa, alla ribalta degli assi. Eppure
    un gigante ha battuto i moscerini con le loro armi, nella loro diletta specialità, . Tre sono stati i tempi
    della vittoria di magni; e se i primi due (discesa folle da Dentecane, quando Bartali s'era scatenato, e
    poi liquidazione di Robic prima della «mezza tappa» di Latina riguardano le sue qualità di ciclista
    senza aggettivi e appendici, il terzo tempo è il più importante e significativo perché svoltosi dinanzi al
    nereggiante pubblico delle terme di Caracalla in quella decisiva «tornata» di motori. Jean e Stan,
    favoriti all'arrembaggio, sono stati zittiti senza riguardi dall'azione potente e freddissima di Fiorenzo.
    Riassumiamo di volo l'antefatto: Robic era sgusciato via nella frazione iniziale. Bartali aveva posto
    uno strepitoso interludio nella tappa «tutta bicicletta» di Salerno (dove Toni Bevilacqua per una
    distrazione storica si giocò la più placida delle vittorie) ancora Robic nei giri a cronometro
    dell'Arenaccia partenopea aveva dato sulla voce, da autentico specialista dei «motori», , ai pretendenti
    al suo primato. Poi venne la mezza tappa da Napoli a Latina, cotta dal solleone e con le prime sparute
    cicale che provavano intimidite le filastrocche d'agosto. A Terracina i motociclisti entrarono in scena
    per la clamorosa sarabanda del finale, poco prima Robic si fermò, non fu l'incidente meccanico e
    neppure la foratura, talvolta accade che il mal di pancia non risparmi neppure le auguste viscere dei
    leaders e Robic, zanzara di questa corsa che gli piace tanto, rifugiò in un cespuglio le malinconie di un
    dolorino e l'ansia di un primato ormai fuggente. Si «agganciò» alla sua Gilera in ritardo, mentre avanti
    i «grandi» imperversavano. A Latina arrivò staccato, furioso, indemoniato, trapassò Magni con una
    occhiata di fuoco e gli diede appuntamento all'ultimo carosello dei motori, a Caracalla; anche Ockers,
    vincitore della tappa, già stava pensando al finale. I terribili pigmei meditavano la crudele punizione
    all'inesperto gigante, che s'avventurava nel loro regno. Così maturò con meticoloso crescendo il
    «dramma» della corsa, bastò che alla curva di Caracalla Jean Robic intravedesse le moto già friggenti
    nell'ansia della gara, bastò quell'attimo fragoroso e confuso dell'agganciamento perché partisse
    disperato, senza voltarsi, sorprendendo Magni di colpo. I primi due giri del circuito videro dunque il
    vittorioso assalto del pigmeo di Francia ad un primato soffiatogli dal mal di pancia. Poi schizzò via
    Ockers, evoluendo in sapienti acrobazie ad ogni curva, rannicchiato come in una trincea dietro la sua
    motocicletta. Prese Robic, lo staccò a sua volta e Magni dietro, rabbiosamente. Sembrava la grande
    rivincita dei pigmei, inarrestabile. Ma Fiorenzo giro su giro si accaniva spietato sui pedali e a ogni
    curva cercava i guizzanti rivali. Non perse la testa, rifiutò il ritmo degli «specialisti» e impose a
    Pellizzari, suo pilota, la precisa cadenza delle sue volate. Senza l'impiccio di quelle motociclette,
    Fiorenzo avrebbe ingoiato i pigmei col suo sicuro allungo di passista senza confronti. Così fu più
    difficile, alla folla sembrò per molti minuti impossibile, ma poi fu un urlo solo quando Robic si
    ammosciò di schianto, ripreso e scaraventato da una parte da Fiorenzo, ipnotizzato ormai dalla ruota di
    Ockers. E un altro urlo più grande quando Ockers si girò indietro, così sfinito avvilito da non
    contrastargli neppure la volata al platonico traguardo finale.
    Bertocco, finita la gara, scherzò col quasi quarantenne Bartali, mettendogli a mo' di corona sul capo,
    protetto da un fazzoletto bianco annodato alla contadina, il suo imbuto da organizzatore. Gino
    rispose con una smorfia da combattente sconfitto: non contento del quarto posto, avrebbe ritentato
    un'ultima volta e poi, nel febbraio del '55, si sarebbe ritirato dalle scene agonistiche. La battaglia tra
    Magni - portacolori della équipe Ganna - Robic, Ockers, Bartali, Kubler, Koblet e Poblet -
    quest'ultimo uno scalatore spagnolo attirato dalla novità dei Gran Premi della Montagna - si ripeté
    nel 1953. L'esperto campione pratese sbaragliò ancora tutti e questa volta senza l'aiuto della buona
    sorte. Batté Ockers, che voleva fortemente la corsa, e tra i due s'inserì la sorpresa Bruno Monti, un
    giovanotto di Albano Laziale passato professionista da poco. La gara si articolò su cinque tappe, da
    mercoledì 22 aprile alla domenica del 26 aprile: ormai il carosello finale sul circuito stradale di
    Caracalla, con un'importante esposizione di sponsor, era diventato un pilone della manifestazione e
    ogni cosa veniva apparecchiata affinché cadesse in un giorno festivo. L'itinerario tornò a toccare,
    dopo molti anni, le cittadine di Terni e L'Aquila, subito nelle prime due giornate; così che l'Umbria
    e gli Abruzzi rientrarono nel panorama della classicissima del centromeridione. Decisivo fu il tratto
    sulla “fettuccia” di Terracina, che Magni compì a una media di 71 kmh. Monti vinse a Caracalla e la
    folla andò in visibilio. Alla partenza da Roma, la carovana multicolore delle bici e delle moto aveva
    sfilato per via del Corso al mattino, svegliando qualche dormiglione; e una rappresentanza dei
    ciclisti aveva deposto una corona di fiori all'Altare della Patria. Mantella scrisse che si era vista
    «una grandissima Roma-Napoli-Roma». Il suo collega Rizieri Grandi, capo dei servizi sportivi de Il
    Messaggero, scrivendo su un giornale del gruppo Rizzoli rilevò che la corsa risultava «sciatta» nei
    tratti in linea e s'animava soltanto in quelli dietro le moto.
    Essere uno specialista nell'aggancio e nell'utilizzo del cono di vento creato dalle motociclette era,
    innegabilmente, sempre più il requisito indispensabile per aggiudicarsela. Forse bisognava anche
    avere una cera fresca e malleabile, per diventare un vero specialista, se è vero che Monti, il
    giovanotto portacolori della Arbos del costruttore di bici Chiappini, nel 1954 beffò per nove
    secondi Coppi, tornato dentro con l'intento preciso di aggiungere il Ciclomotoristico al suo ricco
    curriculum. Le stupefacenti cavalcate del «campionissimo», filante a 58 di media nei tratti senza
    motori, non bastarono all'impresa. In una stagione sfortunata priva di vittorie importanti per lui, finì
    primo al circuito di Caracalla - soltanto altre sette corse avrebbe vinto di lì alla sua morte nel '60 - e
    secondo nella classifica finale. La gara comprese quattro giornate e 880 km.
    L'edizione del 1955, che ebbe in Coppi e in Koblet, “le pedaleur de charme”, i numeri di centro, si
    sviluppò verso sud, perdendo il sottotitolo di “Roma-Napoli-Roma”. Una glossa che non ci poteva
    stare in quanto le cinque giornate di gara, dal 27 aprile al primo maggio, fecero transitare la
    carovana dalla Capitale a Caserta, e giù a Benevento, Foggia e Bari, per risalire il “tacco” a Potenza
    e proseguire per Salerno, Napoli, Aprilia, Roma. Un totale di 1.016 km con molte tappe in linea,
    alcune delle quali spezzate dall'aggancio alle Gilera, e rumorose giostre turbinanti di centauri e
    ciclisti nei circuiti stradali cittadini. Il VI GP Ciclomotoristico delle Nazioni - vinto da Monti
    davanti a Nino Defilippis e a Coppi - venne definito dalla stampa nordista un «antipasto del Giro
    d'Italia», assolvendo, come scrisse Attilio Camoriano, «il suo compito che è, soprattutto, quello
    della propaganda nelle regioni del centro-Sud, con una corsa che porta la bandiera della
    spregiudicatezza e della modernità». Considerando che il Giro nello stesso anno si fermò a Scanno,
    negli Abruzzi, per risalire la Penisola senza farsi vedere nei luoghi della miseria diffusa, e che
    parimenti avrebbe operato nelle stagioni successive, fino all'edizione del Centenario dell'Unità
    d'Italia del 1961, andando sempre non più giù della Campania, possiamo invece affermare qualcosa
    di diverso: che la corsa a tappe inventata da Bertocco si era ormai affermata come un'alternativa
    valida a quella organizzata da Giuseppe Ambrosini, il direttore della “rosea”. E diciamo di più: che
    era una manifestazione sportiva di massa sentita propria dalle genti sudiste; una gara fantasiosa di
    carattere, resa speciale dal ritmo tarantellato e ruggente dei motori, studiata per loro, le folle del
    profondo sud, al contrario del nordico “Giro” che scientemente le emarginava.
    «La corsa più discussa del calendario internazionale» - secondo una definizione di Aldo Congiu su
    Il Calcio e il Ciclismo Illustrato - ritornò puntuale nel 1956. Poiché Bertocco era passato al settore
    organizzativo del Corriere dello Sport, la sua creazione passò parimenti sotto l'egida del giornale
    sportivo capitolino. Il quale stava diventando molto attivo nel meridione nell'allestimento di eventi
    sportivi a carattere giovanile e intendeva usare il Ciclomotoristico come fiore all'occhiello da
    opporre al Giro della “rosea”. Con la settima edizione si volle tornare all'antico, scegliendo un
    itinerario compreso tra Roma e Napoli e che toccava, in dieci semitappe, le cittadine di Perugia,
    Terni, L'Aquila, Fiuggi, Frosinone, Caserta, Latina. Circa 900 km in linea e 172 dietro motori. Si
    discuteva se bisognasse avere classe per vincere un Ciclomotoristico sempre più modellato a favore
    degli specialisti, anche se Coppi - proprio lui che era stato il re dell'inseguimento su pista - aveva
    detto che faticava di più in una tappa dolomitica che in un tratto dietro motori. La corsa si sviluppò
    dal 25 al 29 aprile ed ebbe la concorrenza della Vuelta, dove si erano spostati Bobet e Poblet. Gli
    italiani che avevano evitato il Giro di Spagna non si spremettero più di tanto per contrastare Stan
    Ockers. Il piccolo ciclista delle Ardenne, campione iridato in carica e primatista mondiale dietro
    serny, usò benissimo il talento del suo allenatore personale, Vanderboreck. Già nella prima giornata
    acciuffò la maglia giallorossa. Per due giorni la tenne dentro la valigia, indossando quella iridata. La
    esibì il sabato mattina a Fiuggi, entrò a Napoli lungo la via Caracciolo gremita di folla e surclassò
    tutti, compresi Magni, Monti, il lussemburghese Charly Gaul e l'altro belga Alfred De Bruyne, il
    maestro del pavé. A Caracalla il suo fu un carosello trionfale, con la solita folla delirante, ma la
    corsa ricevette molte critiche dalla stampa. Non piacquero i tratti dietro motori in salita, giudicati un
    controsenso; non piacque il fatto che i corridori, tutti professionisti ad ingaggio, percorressero ad
    andatura turistica le semitappe in attesa dell'aggancio fatidico alle motociclette. La pioggia, inoltre,
    disturbò parecchio, al punto che “l'australiana” sul circuito de L'Aquila venne annullata per il rifiuto
    degli atleti di esibirsi in condizioni di elevato rischio.
    Nel 1957 Bertocco cercò di migliorare le cose cominciando dalla moto: al posto della Gilera entrò
    la Guzzi. La ditta lecchese era stata la prima fabbrica al mondo a costruire una galleria del vento in
    rapporto uno a uno, con varie conseguenze sulle strutture carenate dei suoi modelli. Nel 1950 aveva
    prodotto il “Galletto”, il primo scooter a ruote normali. La Guzzi impiegò per il Ciclomotoristico la
    “Lodola 175”, che dava le garanzie di velocità e tenuta necessarie. Il binomio Guzzi-Corriere dello
    Sport partorì un'ottava edizione molto bene organizzata, ricca di assi (dei più forti italiani assenti
    solo Nencini e Baldini) e con un itinerario in otto giornate che spaziò dal Tirreno all'Adriatico, con
    latitudine massima a Macerata e minima a Salerno. Scelta obbligata anche per via del quasi
    concomitante Giro della Campania. Un trofeo speciale venne intitolato a Ockers, morto in pista ad
    Anversa nel settembre del '56. La gara venne resa la più varia possibile, con un misurato cocktail di
    prove in linea, tratti in salita e tratti dietro motori, in modo da evitare i momenti di caduta della
    tensione agonistica. La presentazione fatta all'epoca da Natale Bertocco:
    [...] In questi otto anni la gara prima lanciata da «Il Tempo» e lo scorso anno ereditata dal quotidiano
    sportivo romano ha compiuto passi giganteschi: da due giornate di gara si è giunti a otto, con dodici
    settori. Praticamente dodici vere e proprie tappe anche se talune brevi, con tratti in linea e dietro
    motori, la qual cosa consente a tutti, anche ai comprimari, di giocare le proprie carte. Il numero dei
    concorrenti è andato anch'esso via via aumentando, pur lentamente per le caratteristiche della prova
    che non consente partecipazioni di massa, passando dai 28 del 1950 ai 42 di quest'anno. Delle dodici
    tappe o settori, nove si concluderanno in circuito dietro le veloci e sincronizzate «Guzzi 175 cmc », la
    nuovissima Lodola lanciata recentemente dalla grande Casa di Mandello Lario: a Caserta, Napoli,
    Salerno, Campobasso, Pescara, Ascoli, Spoleto, Rieti e Roma naturalmente. Si tratta di circuiti tra i più
    belli e spettacolari scelti con criterio tecnico, ad ampio respiro. Taluni addirittura fantasiosi come
    quelli sui lungomare di Napoli e di Salerno, o sul viale dei platani secolari di Caserta, o ancora quello
    fascinoso delle Terme di Caracalla. Due volte a chiusura di tappe in linea entreranno egualmente in
    scena le «Lodola»: a Chieti dal bivio della Tiburtina alla città teatina; ed a Teramo, negli ultimi dodici
    chilometri degli immensi stradoni che dall'Adriatico, Giulianova, conducono alle pendici del Gran
    Sasso. Ma c'è di più. Gli organizzatori si sono preoccupati di equilibrare le forze in campo, dando agli
    arrampicatori la possibilità di recuperare gli eventuali ritardi che dovessero sommare nei tratti
    motorizzati. Ecco infatti una tappa interamente in linea e in dura ascesa: la Campobasso-Roccaraso,
    con i valichi notevoli del Macerone e di Rionero Sannitico, oltre all'ascesa da Castel di Sangro al piano
    delle «cinque miglia». Inoltre, gli arrampicatori potranno godere di abbuoni di tempo (30” al primo e
    15” al secondo) nei sei traguardi del Gran Premio della Montagna: a San Giuliano del Sannio, al
    Macerone, a Rionero, a Croce di Casale, a Colfiorito e al Passo della Somma. Le tappe volanti
    serviranno a vivificare la corsa, disseminate come sono, qua e là nelle otto giornate di gara.
    Il menù è insomma di classe, degno di un grande banchetto, di una completa competizione
    internazionale. Quali siano i commensali è noto a tutti. I maggiori esperti dei «dietro motori» sono stati
    chiamati in causa. Taluni corridori stranieri porteranno dal Belgio, dalla Francia e dalla Svizzera i
    propri «coéquipiers», a conferma della importanza che la figura dell'allenatore motociclista riveste in
    questa competizione. Tutti i vincitori delle maggiori classiche di apertura di stagione saranno
    protagonisti dell'VIII GP delle Nazioni: anzitutto Alfred De Bruyne, che capeggia la classifica della
    «Challenge Desgrange-Colombo», quindi Van Looy, Van Steenbergen, Gaul, Koblet, Strehler, Poblet,
    Impanis, De Cook, Gauthier, Dupont, Rolland, Van Est, Wagtmans, Keteleer e Lauwers. Uno
    schieramento formidabile al quale il ciclismo italiano cercherà di opporre quanto di meglio passa in
    questo momento il nostro convento: Albani, Defilippis, Fabbri, Monti, Conterno, Moser, Minardi,
    Maule, Dall'Agata, e i giovani Emiliozzi, Bartoluzzi, Mauso, Carlesi ed altri ancora, nella speranza che
    qualcosa di nuovo e di grande si verifichi. Il pronostico è comunque pienamente favorevole agli
    stranieri, in attesa per noi di tempi migliori. La manifestazione mobiliterà centinaia di migliaia, forse
    milioni di spettatori. Un successo, anche questo, assicurato in partenza. E che si aggiunge a quello
    tecnico, spettacolare, propagandistico che ha sottolineato le prime sette edizioni dell'ardita corsa di
    avanguardia.
    Gli sforzi di Bertocco furono premiati in pieno, giacché la corsa fu entusiasmante sotto il profilo
    agonistico e riscosse un'adesione di pubblico senza precedenti, paragonabile alle tappe alpine del
    Giro. Lo stesso Emilio De Martino, uno dei soloni del giornalismo sportivo, fu costretto a rivedere
    le sue critiche sempre negative: «Desidero riconoscere oggi che la tenacia e la volontà degli
    organizzatori romani hanno creato una corsa dl tutto originale che ha diritto di vita fra le migliori
    del mondo internazionale». Da Roma a Spoleto ad Ascoli a Pescara, la gara vide protagonisti il
    laziale Alberto Emiliozzi e il trentino Aldo Moser, due prodotti della nouvelle vague chiamata a
    sostituire la triade Bartali-Coppi-Magni. Una caduta di Emiliozzi sul circuito pescarese - il
    ventiseienne di Tarquinia correva per la squadra belga Faema ed era un protetto di Learco Guerra -
    fece avvicinare uno degli stranieri più pericolosi, Wout Wagtmans, pilotato tatticamente da
    Costante Girardengo. Il ciclista olandese sfruttò i tratti dietro motori e i circuiti cittadini per
    superare i due italiani e aggiudicarsi la corsa davanti a Miguel Poblet. Lo spagnolo, leader della
    Ignis, vinse l'ultima prova a Caracalla, al cospetto di oltre trentamila spettatori che speravano in un
    successo di tappa di Monti. Poblet fu suo malgrado al centro di un piccolo sgarro combinato alla
    casa varesina che produceva elettrodomestici: il giorno dell'arrivo a Pescara la Ignis ci teneva al suo
    successo, perché aveva programmato d'inaugurare la sua fabbrica locale esattamente nel momento
    in cui lo spagnolo avrebbe tagliato il traguardo. Ma Van Steenbergen buggerò il primo posto, e così
    allo stabilimento, davanti alle maestranze riunite, saltò in aria il tappo della bottiglia di champagne
    senza la vittoria sportiva. Buona fu, per l'appunto, la difesa del campione del mondo Ryk Van
    Steenbergen, quinto alle spalle di Moser, quest'ultimo iscritto per la Carpano-Coppi, e sfortunata
    quella di Emiliozzi, alla fine solo quarto in classifica. Deludenti il campione di Francia Bernard
    Gauthier, il campione d'Italia Giorgio Albani, l'iridato d'inseguimento su pista Guido Messina e il
    giovane belga Ryk Van Looy, destinato a divenire uno dei più forti velocisti nella storia del
    ciclismo su strada. Su questi atleti pesò l'inesperienza in una corsa ibrida che, coi suoi 220 km
    dietro le Guzzi, i rischi di cadute, le interruzioni a getto continuo, la discrepanza numerica delle
    squadre in competizione, presentava notevoli problemi d'adattamento. Come rilevò Rino Negri, uno
    dei tanti cronisti al seguito (tra loro segnaliamo il telecronista Nando Martellini), non era certo tutto
    rose e fiori il GP delle Nazioni:
    Van Steenbergen, Albani, Maule ed altri non ci hanno nascosto che se l'anno venturo il
    «Ciclomotoristico» presenterà tante tappe e tanti chilometri da correre nella scia del motociclista come
    quest'anno, rifletteranno a lungo prima di dare la loro adesione. Ci rifiutiamo di credere che gli
    organizzatori siano decisi ad aumentare ancora le giornate di gara, fino a portarle a tredici. A meno
    che essi non vogliano rinunciare all'ausilio degli allenatori meccanici. Quest'anno, al «via» dei tratti
    motorizzati, non si faticava ad indicare il nome del vincitore, esattamente come è accaduto in passato,
    dal giorno cioè in cui il «Ciclomotoristico» è nato. E sapete perché? Semplice: dei quarantadue
    concorrenti soltanto sette od otto riuscivano a pedalare senza inzuccare nel rullo!
    La marcia verso sud riprese nel 1958, quando la corsa arrivò fino a Taranto. Il Corriere dello Sport
    era un'azienda floridissima che aveva come obiettivo rimpiazzare completamente la rivale Gazzetta
    dello Sport nelle vendite da Bologna in giù. Come abbiamo accennato, essa aveva sviluppato negli
    anni cinquanta un settore organizzativo, diretto da Bertocco, che includeva molti eventi in svariate
    specialità, dal nuoto all'atletica, dallo sci al calcio, al ciclismo e al motorismo. Le sue redazioni
    nelle principali città meridionali aiutarono l'ingrandimento dell'organizzazione del Ciclomotoristico.
    E decisivo fu l'ingresso di sponsor di prestigio. Da un manifesto pubblicato dalla tipografia romana
    del Corriere per la IX edizione, vediamo che la Campari metteva in palio per il vincitore un milione
    di lire. Che la Ramazzotti patrocinava il Gran Premio della Montagna e la Chinotto Neri la
    Classifica Stranieri. La Aspro organizzava la Giroclinica, la Shell forniva i carburanti, la Longines
    gli apparati di rilevamento cronometrico. La Simmenthal si occupava della Pagella dei Corridori, la
    Faema dei rifornimenti, la Ignis del Gran Premio dell'Industria, la Asborno delle tappe volanti,
    l'Egeria metteva i premi della tappa di Roma, la Appia quelli della tappa di Foggia, la Aurum quelli
    della tappa di Taranto. Un gruppo di marche associate patrocinava il Trofeo Fynsec, destinato al
    vincitore del circuito di Caracalla. Quarantadue atleti di otto nazioni si contesero un volume di
    premi montante a svariati milioni di lire, in sette giornate dal 30 aprile al 6 maggio. La corsa fu
    appannaggio di Joseph Hoevenaers, un belga della Faema che avrebbe avuto un solo altro momento
    di popolarità, nel 1960, giungendo terzo al mondiale su strada. Hoevenaers si dimostrò perfetto
    dietro i rulli, bene supportato dal guzzista Montanari. I posti d'onore andarono a Poblet e al
    novarese Giuseppe Fallarini. Maluccio andò la stella italiana Ercole Baldini, che pagò l'inesperienza
    dietro il rullo, pur provenendo lui stesso dalla pista.
    Per l'edizione del decennale, quella del 1959, la novità più grossa fu rappresentata dal ritorno in
    campo della Lambretta, che impiegò il modello Tv 175 cmc dotato di motore centrale e cambio a
    quattro velocità. Bertocco si preoccupò di recuperare un po' degli assi che la concorrenza dei
    concomitanti Giro della Svizzera Romanda e Giro di Spagna tendevano a soffiargli. Prima di tutto
    ottenne l'adesione di Baldini, campione iridato in carica. Il veronese di Villafranca, leader della
    Ignis, deteneva il primato assoluto dell'ora, portava la maglia tricolore e aveva vinto l'ultimo Giro
    d'Italia. Per la sfida a Baldini, l'organizzazione pensò a Charly Gaul, recente trionfatore al Tour, al
    sempiterno Louison Bobet e a Miguel Poblet, cioè il meglio di Francia e di Spagna; più Gastone
    Nencini, il ventinovenne di Barberino di Mugello capofila della GS Carpano, che la stagione dopo
    avrebbe coronato la sua carriera vincendo il Tour. La gara si sviluppò in nove giornate, toccando
    per la prima volta la Calabria e la Sicilia, con il trasbordo dei corridori in aliscafo allo stretto di
    Messina. Le città interessate furono undici: Roma, Napoli, Foggia, Taranto, Reggio, Messina,
    Catania, Siracusa, Agrigento e Palermo. Per cui si parlò di una “Roma-Napoli-Palermo” lunga
    1.800 km e sponsorizzata da quindici ditte, più l'organizzazione del Corriere dello Sport. I
    corridori saggiarono ben nove circuiti cittadini e s'impegnarono in tre tappe in linea con arrivi in
    salita. Baldini, fuori forma e subito strappato, lasciò via libera a Bobet, insidiato fino all'ultimo da
    Nencini, che coi francesi (famose le sue lotte con Anquetil al Giro e al Tour) aveva sempre un conto
    aperto. Il campione transalpino - viaggiante sui trentaquattro e al volgere di una carriera
    luminosissima, atleta completo, forte sul passo e in salita, con buoni spunti da velocista - si ripeté
    nel 1960, battendo questa volta Wagtmans, in un'undicesima edizione del Ciclomotoristico che non
    giunse in Sicilia.
    Le edizioni del 1959 e 1960 servirono a Bertocco per ritoccare ancora la sua creazione, soprattutto
    in relazione all'incidenza dei motori sul risultato finale. Le innovazioni studiate riguardarono il
    percorso, con molti più tratti in linea, l'aumento delle concessioni degli abbuoni in montagna,
    l'estensione degli stessi agli arrivi delle tappe e semitappe in linea, la riduzione dei circuiti cittadini
    (nel 1960) e l'arrivo di una tappa senza l'agganciamento; si fece ammenda dell'errore commesso nel
    1960, quando i tratti dietro motore erano stati separati da quelli in linea, togliendo agli spettatori il
    brivido e lo spettacolo del rischioso aggancio al rullo. Nel 1960 la corsa toccò, dal 20 al 27 aprile,
    Caserta, Foggia, Manfredonia, Pescara, San Benedetto del Tronto, Riccione, Rimini, Nocera Umbra
    e Spoleto. Nel 1961 l'itinerario presentò sette tappe, e sempre senza il transito a Napoli: da Roma a
    L'Aquila, verso est per Teramo, Pescara, Ortona, Foggia, e risalita per Campobasso, Salerno, Stabia,
    Caserta, Roma. Un totale di 1309,940 km, dei quali solo una piccola parte aventi a protagonista la
    Lambretta. Imponente il parterre degli sponsor: Innocenti, Aspro, Aurum, Campari, Longines,
    Fynsec, Lama Bolzano, Magnadyne-Kennedy, Chinotto Neri, Philco, Ramazzotti, Remington,
    Ferrarelle, Gazzola, Totocalcio. Buono ma non eccezionale il parterre dei corridori, suddivisi in
    undici squadre ciascuna composta di quattro elementi: Philco, Molteni, Legnano, Gazzola, Fynsec,
    Ghigi, Atala, Torpado, Carpano, St. Raphael e Bianchi. Mancavano alcuni dei campioni del
    momento, distolti dalla preoccupazione di partecipare belli freschi al quarantaquattresimo Giro
    d'Italia, quello del Centenario dell'Unità, arzigogolato in maniera tale da varare una tappa in tutte e
    venti le regioni, perfino in Sardegna. Soprattutto mancavano Jacques Anquetil, il leader della
    Helyett-Fynsec, la Ignis di Poblet, la Faema di Van Looy e nomi nuovi del ciclismo nazionale come
    Arnaldo Pambianco e Vito Taccone.
    C'era, però, Charly Gaul, il minuscolo lussemburghese arrampicatore di razza, amatissimo dalle
    folle e che s'era messo in testa di vincere il Ciclomotoristico, sfuggitogli in quel 1956 che l'aveva
    visto trionfare al Giro. Il GP 1961, irto di montagne, sembrava fatto apposta per lui, per l'angelo
    della montagna che affrontava i più difficili dislivelli in piedi, “en danseuse”, ragion per cui il neoleader
    della Gazzola veniva dato nel lotto dei favoriti. Nella realtà delle cose, la gara partì subito
    male per Gaul, sfortunato nell'aggancio al rullo della tappa Roma-L'Aquila. La corsa nelle sue fasi
    iniziali vide avvicendarsi alla testa della classifica vari corridori: il perugino Carlo Brugnani della
    Torpado, alcuni belgi, francesi e olandesi: Emile Daens, Johan De Haan, Michel Van Aerde, Jean
    Graczyc. Fino a a quando, a Foggia, la folla andò in delirio per la vittoria e la conquista del
    primato da parte di Silvano Ciampi, un pistoiese che aveva qualità di velocista. Ma nella seconda
    fase, ricca di salite sugli Appennini, Graczyc, il leader della Fynsec, prese il comando. Il polacco
    naturalizzato francese, un classe 1933 buon pistard e velocista, conquistò la maglia giallorossa a
    Campobasso. La difese senza problemi fino a Roma, dimostrandosi una sorta di «Fregoli della due
    ruote». L'ultima tappa sul circuito di Castel Fusano (già nel 1960 il circuito di Caracalla era saltato,
    per via delle Olimpiadi) fu vinta da Diego Ronchini, capofila della squadra Ghigi. Graziano
    Battistini, un venticinquenne di Forsdinovo ingaggiato nella Legnano, e Ciampi arrivarono alle
    spalle di Graczyc, precedendo De Haan e l'imolese Ronchini.
    Giuseppe Melillo, direttore ad interim del Corriere dello Sport, scrisse che non si era mai visto un
    Ciclomotoristico «così bello, di altissimi valori tecnici e ottimistico contenuto agonistico», con
    molti giovani in evidenza: Brugnami, Ciampi, Battistini, Bailetti, Rondini, Trapé, Balmanion: «Una
    festa del ciclismo moderno». Ma il suo ottimismo non aveva un futuro da vendere. Nel maggio del
    1961 la proprietà editoriale della Srl Corriere dello Sport passò di mano, dal vecchio Umberto
    Guadagno alla Rusconi & Paolazzi. La nuova proprietà milanese non appoggiò il piano di Bertocco
    per una edizione 1962. Il GP Ciclomotoristico delle Nazioni morì lì. E con lui la sua antenata: la
    XX Settembre o Roma-Napoli-Roma. Una fine improvvisa per una corsa leggendaria e originale,
    nata in autunno e morta in primavera.
    BIBLIOGRAFIA CONSULTATA
    Giornali:
    Il Messaggero, L'Italia Sportiva, la Gazzetta dello Sport, La Domenica Sportiva, Il Littoriale, Il Corriere dello Sport,
    Stadio Sportivo.
    Riviste:
    Lo Sport Illustrato, Tutti gli Sports, Il Calcio e il Ciclismo Illustrato, Lo Sport, Il Campione, Sport Illustrato, Strenna
    dei Romanisti.
    Libri e almanacchi:
    ? Almanacco di Roma 1924, Bologna 1923
    ? Annuario Italiano dello Sport per l'Anno XIV E.F., Milano 1937
    ? Annuario della Gazzetta dello Sport 1937, Milano 1938
    ? G. Giardini, Andare in bicicletta, Milano 1941
    ? A. Gardellin, Storia del velocipede e dello sport ciclistico, Padova 1946
    ? E. Visceglia, Guida toponomastica di Roma, Roma 1951
    ? G. Brera, L'avucatt in bicicletta, Milano 1952
    ? Autori vari, Dizionario dello Sport e dei Giuochi Sportivi, Milano 1953
    ? N. Bertocco, L'abc dello Sport, ovvero: la Società sportiva, Roma 1953
    ? S. Jacomuzzi, Gli Sport, Torino 1965
    ? Autori vari, Enciclopedia dello Sport, Roma 1967
    ? G. Cerri, Le avventure di Alfredo Binda, Roma 1980
    ? R. Mariani, Il mondo su due ruote, Roma 1986
    ? O. Vergani, L'uomo a due ruote. Avventura, storia e passione, Milano 1987
    ? Autori vari, La storia illustrata del ciclismo, Firenze 1988
    ? L. Serra, I giganti della strada. Il ciclismo “eroico” 1891-1914, Reggio Emilia 1996
    ? D. Marchesini, L'Italia del Giro d'Italia, Bologna 1996
    ? L. Iacovella & G. Raviola, Una magia un sogno. Un secolo di campionati italiani di ciclismo, Roma 1999.
    ? D. Marchesini, Coppi e Bartali, Bologna 2002
    ? M. Impiglia, Corriere dello Sport-Stadio, ottant'anni insieme, Roma 2004
    ? M. Impiglia, AS Audace di Roma 100 anni di campioni, Roma 2005
    ? D. Beni jr & D, Beni, 1909-2009 il mio Giro. La storia della competizione ciclistica narrata da due
    protagonisti, Roma 2009
    STATISTICHE DELLA CORSA CICLISTICA
    ROMA-NAPOLI-ROMA - XX SETTEMBRE
    GRAN PREMIO CICLOMOTORISTICO DELLE NAZIONI
    Prospetto riassuntivo delle 39 edizioni della corsa
    Anno data Primo arrivato Secondo arrivato Terzo arrivato
    1902 19-20 sett. Ferdinand Grammel Alfredo Jacorossi Vincenzo Spadoni
    1903 19-20 sett. Vincenzo Spadoni Angelo De Rossi Alberto Mancinelli
    1904 19-20 sett. Achille Galadini Piero Albini Ferdinand Grammel
    1905 19-20 sett. Eberardo Pavesi Giulio Modesti Alfredo Jacobini
    1906 19-20 sett. Carlo Galetti Amedeo Baiocco Ferdinand Grammel
    1907 19-20 sett. Giovanni Gerbi Alfredo Jacobini Umberto Zoffoli
    1908 19-20 sett. Giovanni Gerbi Luigi Chiodi Luigi Ganna
    1909 19-20 sett. Giovanni Gerbi Eberardo Pavesi Pietro Aymo
    1910 19-20 sett. Mario Bruschera Luigi Ganna Carlo Galetti
    1911 19-20 sett. Dario Beni Carlo Galetti Ugo Agostoni
    1912 19-20 sett. Dario Beni Giuseppe Santhia Gino Brizzi
    1913 19-20 sett. Costante Girardengo Giosuè Lombardi L. Ganna & C. Galetti
    1914 19-20 sett. Dario Beni Ugo Agostoni Giuseppe Pifferi
    Anno data Primo arrivato Secondo arrivato Terzo arrivato
    1918 19-20 sett. Giuseppe Pifferi Marzio Germoni Augusto Cocchi
    1919 19-20 sett. Alfredo Sivocci Giuseppe Azzini Giosuè Lombardi
    1920 19-20 sett. Angelo Marchi Lauro Bordin Nicolò Di Biase
    1921 20 sett. Costante Girardengo Gaetano Belloni Federico Gay
    1922 20 sett. Costante Girardengo Federico Gay Emilio Petiva
    1923 20 sett. Costante Girardengo Giuseppe Azzini Federico Gay
    1924 20 sett. Romolo Lazzaretti Michele Gordini Costante Girardengo
    1925 20 sett. Costante Girardengo Gaetano Belloni Adriano Zanaga
    1926 28 nov. Alfredo Binda Leonida Frascarelli Giuseppe Pancera
    1927 19-20 sett. Giuseppe Pancera Pietro Fossati Michele Gordini
    1928 19-20 sett. Antonio Negrini Luigi Giacobbe Pietro Fossati
    1929 19-20 sett. Gaetano Belloni Domenico Piemontesi Pietro Bestetti
    1930 19-20 sett. Michele Mara Raffaele Di Paco Domenico Piemontesi
    1934 9 sett. Learco Guerra Umberto Guarducci Isidoro Piubellini
    GRAN PREMIO CICLOMOTORISTICO DELLE NAZIONI
    Anno data Primo arrivato Secondo arrivato Terzo arrivato
    1950 20-21 aprile Jean Robic Fausto Coppi Louison Bobet
    1951 14-16 aprile Ferdinand Kubler Guido De Santi Nedo Logli
    1952 17-20 aprile Fiorenzo Magni Constant Ockers Jean Robic
    1953 22-26 aprile Fiorenzo Magni Constant Ockers Bruno Monti
    1954 28 apr - 1°mag Bruno Monti Fausto Coppi Ryc Van Steenbergen
    1955 27 apr - 1°mag Bruno Monti Nino Defilippis Fausto Coppi
    1956 25-29 aprile Constant Ockers Bruno Monti Charly Gaul
    1957 21-28 aprile Wouter Wagtmans Miguel Poblet Aldo Moser
    1958 30 apr - 6 mag Joseph Hoevenaers Miguel Poblet Giuseppe Fallarini
    1959 29 apr – 7 mag Louison Bobet Gastone Nencini Armando Pellegrini
    1960 20-27 aprile Louison Bobet Wouter Wagtmans Carlo Brugnami
    1961 25 apr - 1° mag Jean Graczyc Graziano Battistini Silvano Ciampi


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