La bicicletta, il ciclismo, la Federazione Ciclistica Italiana e il Giro d’Italia, in questa sequenza logica, vedono la loro alba nel contesto e nelle conseguenze della 1^ e 2^ rivoluzione industriale. Sulla nascita della bicicletta a noi italiani piace riferirci al ritrovamento dei disegni attribuiti a Leonardo Da Vinci, risalenti presumibilmente al 1493 e scoperti nel 1972 dal più autorevole studioso vinciano, il prof. Mandadori (ritrovamento peraltro contestato ma ancora non smentito da alcuna prova); ma, storicamente si attribuisce a Karl Friedrich Von Drais l’invenzione della prima bicicletta cosiddetta “draisina” (1817). Ancora senza i pedali e spinta con la forza dei piedi pigiando sul terreno, si riconosce ad essa la primigenia forse per il fatto che il barone tedesco fu il primo a registrarne il brevetto.
In realtà nel 1791 Mède de Sivrac a Port-Royal (Francia) mise a punto un prototipo di bicicletta, il “celerifero”, che presto si chiamò “velocifero”. Nel 1855 a Coventry (Inghilterra) nasce il “rover” di John Kemp Starley. Nel 1860 compare a Parigi ad opera del fabbro Michaux il “biciclo”, che si affermerà nell’Esposizione Universale del 1867; spinto per mezzo di pedali fissati al mozzo di una ruota anteriore molto più grande di quella posteriore, ma ancora mancante della trasmissione a catena. Nel 1869 Andrè Guilmet inventò la trasmissione a catena e nel 1888 il dottor Danlop inventò il pneumatico, da quel momento il mezzo assunse le sembianze della bicicletta così come la concepiamo oggi.
In Italia si percepì subito il valore di quello strumento, non solo come mezzo di trasporto, ma anche e soprattutto come elemento ludico su cui immaginare fantasiose avventure. La prima società italiana con regolare statuto fu il Veloce Club Fiorentino di Firenze che depositò l’atto di costituzione il 15 gennaio 1870. Un censimento fatto alla fine del mese di agosto del 1884 consentì di stabilire che le società regolarmente costituite erano 25.
In quello stesso anno erano undici le nazioni che avevano già costituito Unioni Ciclistiche Nazionali, Federazioni o Leghe Velocipedistiche: Inghilterra, Francia, Danimarca, Olanda, Canada, Irlanda, Belgio, America del Nord, Svizzera, Austria e Germania.
A pensare in Italia alla creazione di un Ente Nazionale o di una Unione Velocipedistica fu il segretario del Veloce Club Torino, l’avvocato Gustavo Brignone, il quale riunì il 26 agosto 1884 in locali messi a disposizione dal Comune di Torino 12 società sportive, che firmarono un verbale su cui risultava la fondazione dell’Unione Velocipedistica Italiana; ma, benché verbalizzata la costituzione l’U.V.I. non dimostrò un’effettiva funzionalità. L’anno successivo il congresso di Pavia del 6 e 7 dicembre 1985 alla presenza dei delegati di 17 società, designò il primo Presidente dell’Unione Velocipedistica Italiana nella persona di Ernesto Nessi.
L’unità d’Italia, la seconda rivoluzione industriale, un “liberalismo” vacillante a fronte di bisogni e istanze riformatrici che permeavano una società in trasformazione, protesa verso aspettative nuove e demonizzatrici di una povertà agricola inaccettabile dalle masse, ormai non più vergini al cospetto del salario garantito dall’industria, ci offrono un quadro caotico ma vivace di un’epoca dinamicamente in evoluzione. L’automobile è un privilegio di pochissimi; normalmente ci si muove con la bicicletta che, all’occorrenza, diviene strumento di lavoro quando un geniale “arrotino” veneto inventò una mola applicata alla trasmissione a catena della sua bici.
La bicicletta era il mezzo di locomozione più popolare, tanto popolare da essere tassata in forza di una legge del 22 luglio del 1897 che consentiva ai Comuni di imporre tasse sui velocipedi; era percepita anche come strumento fantastico di affrancamento da una vita povera, dalla quale si può emergere attraverso grandi sacrifici. Anche se non erano in molti ad accedere al professionismo, erano in molti a vedere nel ciclismo un’opportunità di guadagno non indifferente a contadini e operai.
Nonostante la bicicletta e il ciclismo possono essere considerati elementi della modernità, nondimeno portano con se ideali antichi propri dello sport dell’antichità: l’eroismo, l’epicità e la drammaticità si respirano ancor oggi in ogni corsa ciclistica e ancor di più ove si tratti di una corsa a tappe, è per questo che parleremo del Giro d’Italia del 1914, passato alla storia come il più duro di tutti.
Erano tempi polverosi e drammatici come le strade battute dal ciclismo. Il Giro d’Italia del 1914 fu l'ultimo disputato prima dello scoppio della Grande Guerra ed il primo disputato con classifica generale a tempi anziché a punti. È ricordato come il Giro più duro dell'epoca eroica del ciclismo.
« Maggior lunghezza media delle tappe: km.396,250 (8 per un totale di 3.162 km.).
Minor numero di concorrenti al traguardo finale: 8 su 81 partenti.
Maggior percentuale di ritirati 90%.
Media Oraria più bassa di sempre: 23,347 km/h.
Maggior distacco del vincitore sul secondo classificato finale: 1h 57’ 26”.
Maggior lunghezza di una tappa: 430 km la Lucca-Roma.
La fuga solitaria più lunga di sempre: 350 km. di Lauro Bordin nella Lucca-Roma.
Maggior tempo di percorrenza di una tappa: 19h 34’ 47” nella Bari-L’Aquila (428 km. alla media di 22 km/h).
Maggior distacco del vincitore sul secondo arrivato in una tappa: 1h03’ 22” di Azzini su Calzolari nella Avellino-Bari. » (P.Facchinetti, Giro 1914, il più duro di tutti, Bradipo Libri p.11).
Quel Giro d’Italia fu corso da ciclisti suddivisi in tre categorie: gli “accasati” rappresentavano le marche di aziende o industrie per lo più del settore come la Bianchi e la Maino, ma anche la Stucchi che oltre a biciclette costruiva macchine da cucire; questi indossavano maglie con i colori delle loro “Case”; gli “isolati” erano generalmente atleti di livello medio-alto che non erano riusciti ad accasarsi, come gli aspiranti indossavano maglie bianche, si arrangiavano come potevano supportati lungo il percorso dall’assistenza di amici e parenti, nell’intermezzo tra una tappa e l’altra si lavavano gli indumenti e rattoppavano i tubolari bucati; gli “aspiranti” erano ragazzotti di belle speranze che tentavano l’avventura destinati a tornare a casa dopo qualche tappa.
A quel tempo i “diavoli volati”, così erano chiamati i ciclisti, per l’aspetto indemoniato che assumevano quando la polvere e il fango s’incrostavano sui loro volti nel corso di tappe particolarmente tormentate dal maltempo, vestivano calzoncini, maglietta, occhialoni antipolvere e berretto coloniale, a tracolla portavano tubolari incrociati sulle braccia e una borsa di stoffa che riempivano ai posti di rifornimento con uova sode, panini, polli, banane e zucchero; le tasche che avvolgevano il petto erano destinate alla cartina altimetrica, alle uova fresche che all’occorrenza con maestria rompevano sul ferro del manubrio con un colpetto secco e ingoiavano avidamente, l’ultima tasca anteriore era per la “bomba”, un borraccino piatto contenente una sorta di miscuglio a base di caffè, alcool e stricnina, che il più delle volte aveva l’effetto contrario da quello desiderato; sul manubrio una borsa con dentro bottiglie e borracce, sotto il sellino altri tubolari arrotolati; col tempo brutto indossavano sotto i calzoncini i mutandoni di lana, berretto con visiera e mantellina, quando c’era bufera o neve indossavano il pastrano.
La vigilia di quel Giro non fu esente da influssi esoterici, come l’epoca e il comune sentire popolare richiedeva; infatti, una santona chiamata la “Sampira” aveva profetizzato la vittoria di Alfonso Calzolari : “Vincerai il Giro d’Italia, ma prima dovrai patire molte sofferenze e correrai grandi rischi.”. Il povero Calzolari ne patì di tutti i colori, dai tentativi di intimidazione agli attentati, dalla corruzione agli incidenti.
Si partì di notte da Milano verso il Sestriere, ad attenderli più o meno 17 ore di sella e un temporale che accompagnerà la corsa per tutto il tempo, su quella salita durissima passò per primo Angelo Gremo a piedi, il più agile dei due rapporti consentiti dalla tecnologia del tempo risultava comunque troppo duro per quelle rampe aspre e rese viscide dalla pioggia, stessa sorte toccò a tutto il gruppo: con le mani poggiate sul manubrio arrancarono tutti a piedi, spesso scivolando nel fango. Sulla strada che porta ad Arona un’inconveniente non troppo inatteso accolse i girini: chiodi a chili lungo tutta la sede stradale, forse gettati da burloni o forse dagli ecologisti dell’epoca, che vedevano nei ciclisti imbarazzanti elementi di pericolo per cavalli e pedoni. Quando la bufera si fece impossibile ogni fienile, caseggiato, osteria erano utili per ripararsi; l’obiettivo era salvare la pelle e finire la corsa. Solo in 37 giunsero al traguardo nel tempo massimo che fu dilatato da 4 a 8 ore; tra le vittime Petit Breton il favorito della vigilia. Angelo Gremo vinse quella tappa tremenda e si presentò solitario a Cuneo dopo 17 ore e 15 minuti.
La tappa successiva non era tra le più difficili, “solo” 340 km per arrivare a Lucca; si partì alle 4,20 ma di gran carriera rincorsi dalla locandiera: esigeva il conto e reclamava il furto di salami e prosciutti appesi alle travi della locanda che aveva ospitato parte della carovana. A La Spezia crollarono sia Gremo che Luigi Ganna, doloranti e in preda a un pianto dirotto, si ritirarono lasciando strada a Alfonso Calzolari che staccò di 20 minuti Azzini e di mezz'ora Girardengo.
Il 28 maggio si corse la 3^tappa, la più lunga della storia del Giro d’Italia; partenza da Lucca poco dopo la mezzanotte e l’arrivo previsto a Roma dopo 430 chilometri. In 27 erano i concorrenti rimasti in gara attorniati da un clima festaiolo, ciascuno coi suoi problemi, chi di tempo massimo, chi di dolori o ferite procurate nelle dure tappe precedenti, chi come Lauro Bordin pronto ad azioni avventate pur di anticipare campioni più blasonati di lui. Infatti, con l’aiuto delle tenebre e la complicità di un treno merci, l’astuto Bordin di soppiatto oltrepassò il passaggio a livello, evitò il treno e si gettò con coraggio in un’impresa che rimarrà nella storia come la fuga più lunga di sempre del Giro d’Italia. A Firenze il fuggitivo aveva 25 minuti di vantaggio, accolto dalle luci predisposte sui lungarni dalle autorità comunali, pedalava ancora con energia e pieno di speranza.
« […] vide spegnersi la notte e accendersi l’alba, a San Quirico fu accolto dalla banda del paese, dovunque fu salutato con entusiasmo da una folla ammirata dal suo coraggio e avvisata dell’impresa dalla vettura staffetta che entrava strombazzando in ogni centro abitato. […] » (P.Facchinetti, Giro 1914, il più duro di tutti, Bradipo Libri p.43).
A Narni, dopo 350 chilometri percorsi in solitaria avanti a tutti, finì l’impresa di Bordin. In otto lo superano, un saluto e via, Girardengo, Durando e Lucotti della Maino, Azzini e Oriani della Bianchi, Albini della Globo, Calzolari e Canepari della Stucchi, sporchi, incrostati di polvere e fango, come fantasmi si approssimavano alla città eterna. Fino a Roma i tentativi si susseguirono ma fu Costante Girardengo a tagliare per primo il traguardo posto a Tor di Quinto, anticipando il suo compagno di squadra Durando e Oriani. Quella tappa raccontò di che pasta fosse fatto Costante, ancora chiamato l’ “Omino di Novi”, ma che diverrà presto “Il Campionissimo”.
« […]il vincitore aveva impiegato 17 ore e mezza e aveva corso alla media di 26 km/h. Bordin sarebbe arrivato 17 minuti dopo assieme a Sala. Alle 9.40 di sera arrivarono gli ultimi quattro: Ripamonti, Palea, Marangoni e Robotti. Un solo ritirato: Bertarelli, a Firenze, afflitto da dolori alle ginocchia. […] » (P.Facchinetti, Giro 1914, il più duro di tutti, Bradipo Libri p.43).
Ad Avellino la Bianchi sferrò il suo attacco, Azzini ben supportato da Oriani, Pavesi e Bordin dettò il passo; Calzolari fu attardato da due forature sospette, una prima volta mentre aveva la bicicletta in spalla e una seconda volta subito dopo la firma a un controllo, dove la ressa consentiva qualsiasi tipo di scorrettezza. Azzini giunse solo sul traguardo di Avellino con 30 minuti di vantaggio su Albini.
Il giorno seguente passò alla storia per la resa di Costante Girardengo, il giovane Campione d’Italia dovette arrendersi in preda a lancinanti dolori alle gambe: non era ancora abituato alle dure andature nel fango di quei sentieri sconnessi. Azzini bissò il successo del giorno prima, si presentò a Bari un’ora prima di Calzolari e passò in testa alla classifica generale per 6 secondi. Quella sera i dirigenti rappresentanti le varie Squadre si scatenarono in reclami incrociati, alla faccia del tanto blasonato farplay del ciclismo eroico, cercando di affibbiarsi vicendevolmente colpi bassi, peraltro andati tutti falliti. La mattina seguente però, Calzolari si svegliò con la bella sorpresa di essere nuovamente capo classifica; questo in virtù di una penalizzazione di 1 minuto che la Giuria aveva comminato ad Azzini per accorciamento volontario di percorso.
Nella sesta tappa Azzini andò in crisi sul Macerone e venne ritrovato il mattino seguente in un granaio a Barisciano, in preda alla febbre e a una brutta polmonite poi riscontrata in ospedale.
Calzolari ritornò ad essere il leader ma venne penalizzato di tre delle cinque ore di vantaggio per essersi attaccato ad una macchina lungo la Salita delle Svolte; in realtà il buon “Fonso” rifiutò l’invito ad attaccarsi, per tutta risposta il conducente dell’auto lo strinse contro un muretto costringendolo ad appoggiarsi per evitare la caduta; anche il giorno precedente Calzolari fu vittima di un fatto increscioso, un losco individuo lo avvicinò e gli offrì 15.000 lire per perdere quel Giro, non sapeva con chi aveva a che fare; quell’omino era piccolo ma sorretto da una forza interiore che prevaricava ogni materialismo, nessuno gli avrebbe tolto quel Giro se non con la forza delle gambe e dei polmoni.
La settima tappa fu caratterizzata dalle polemiche scaturite nella sesta, con Calzolari preoccupatissimo, sia per una lettera anonima che gli intimava di perdere, sia per l’atteggiamento dell’Unione Velocipedistica Italiana alla quale sembrava insufficiente la penalizzazione di 3 ore inflittagli dai giudici. I ritiri di Albani e Lombardi fissarono definitivamente a 8 il numero degli atleti in gara. La tappa la vinse Albini approfittando di un finale reso burrascoso da un seguito di macchine, moto e biciclette che finirono per coinvolgere in una caduta il povero Canepari.
L’ultima tappa vedeva il gruppetto dei superstiti partire come consuetudine a notte inoltrata. Al seguito si aggiunsero ben presto occasionali appassionati, che non volevano saperne di fermarsi ai bordi delle strade ad applaudire, erano determinati ad accompagnare gli eroi per lunghi tratti, decisi a partecipare a una marcia trionfale spontanea. Il fragore che ne scaturì divenne insopportabile e quella tappa fu un susseguirsi di spintoni, scappellotti e codate ai malcapitati intrusi, perlopiù destinati a ribaltarsi nei fossati lungo le strade. L’atmosfera cambiò quando in prossimità del traguardo si aggiunsero alla carovana i vari Girardengo, Ganna e Galetti…i campioni ritirati dalla competizione ora venivano a rendere omaggio ai compagni che avevano valorosamente resistito alle prove infernali di quella competizione. Una cornice festante accompagnò Albini a vincere anche quest’ultima tappa; il Giro sembrava essere nelle mani di Calzolari designato vincitore dagli organizzatori, ma non dall’Unione Velocipedista Italiana che ne chiese la squalifica. Solo nel febbraio del 1915 il tribunale diede ragione alla Gazzetta dello Sport confermando vincitore Alfonso Calzolari.
Maurizio Brilli