Era esattamente il 22 ottobre 1964 quando Mario Zanin salì sul gradino più alto del podio con al collo la Medaglia d'Oro più ambita: quella delle Olimpiadi.
"Io dovevo entrare in tutte le fughe, ruolo che mi vedeva già sacrificato. E infatti sono entrato subito nella fuga iniziale, e per lo sforzo stetti male e mi misi in coda al gruppetto con un rapporto agile. Fatto sta che dando pochi cambi e con la pedalata leggera mi sono sistemato lo stomaco e messo a posto i muscoli. Alla fine stavo così bene che feci una grande volata". Alla faccia di corridori come Merckx, Ritter, i fratelli Petterson, Karstens, Godefroot, lo stesso Gimondi, "tutta gente che avrebbe scritto i successivi 10 anni della storia del ciclismo".
La stella del ragazzo nato a Santa Lucia di Piave (3 luglio 1940) non fu altrettanto abbagliante tra i professionisti: un poker di stagioni tra molte ombre e poche luci, una sola vittoria nell’undicesima tappa Barcellona – Huesca alla Vuelta di Spagna 1966. Ma il suo sogno era già diventato realtà:"Si dice che dopo un'impresa ci si rende conto dopo qualche giorno. A me c'è voluto quasi il successivo quadriennio olimpico. Solo quando si iniziò a parlare di Città del Messico 1968 mi resi conto che avevo vinto un'Olimpiade, traguardo che per molti miei avversari rimase un sogno". Parola di Mario Zanin.
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